Plastica nella placenta umana, la scoperta del dottor Antonio Ragusa

2022-07-02 06:51:29 By : Ms. Fay Huang

La plastica è ovunque, anche dove non te lo aspetti, come ad esempio nella placenta umana. Da anni noi di eHabitat vi abbiamo raccontato la sovrapproduzione di questo materiale, le difficoltà nello smaltimento e i danni che provoca agli ecosistemi, in particolare quelli marini. A questa storia di capitalismo doloso e incoscienza consumistica si aggiunge un capitolo particolarmente allarmante: le microplastiche sono assorbite dagli organismi umani sin dal grembo materno.

Abbiamo intervistato il dottor Antonio Ragusa, direttore dell’Unità Operativa Complessa di Ostetricia e Ginecologia dell’Ospedale Fatebenefratelli – Isola Tiberina di Roma e autore del libro Nati con la camicia… di plastica (Aboca) in cui ha raccontato come il suo team di lavoro è giunto a questa scoperta.

“Una delle cose più difficili dello studio è stata organizzare il protocollo di prelievo delle placente senza plastica. Alla fine quando era tutto pronto e avevamo la prima placenta in arrivo (la mamma stava partorendo) ci siamo resi conto che in ospedale non c’erano contenitori senza plastica! Allora bloccammo tutto e perdemmo la placenta della prima mamma donatrice. Io provai a cercare contenitori senza plastica (plastic free) dai fornitori di materiale sanitario, mi feci aiutare dal farmacista del mio ospedale, ma non fummo in grado di trovarli, sembra incredibile, ma la plastica è ovunque!

Così provai a cercare contenitori senza plastica al di fuori del circuito sanitario e finalmente in un negozio periferico di Roma, gestito da una coppia di commercianti cinesi, trovai delle piccole saliere in vetro con il cappuccio in metallo, allora ne acquistai 30, con grande gioia della venditrice che mi chiese se gestissi un ristorante. Risposi, scherzando, che non gestivo un ristorante, ma che ero uno scienziato e grazie a quelle saliere avrei preso il premio Nobel… Allora la venditrice volle farsi una foto ricordo insieme a me futuro ipotetico premio Nobel grazie alle sue saliere.

Una volta ottenute le placente e i contenitori necessari, abbiamo tagliato i campioni, li abbiamo stoccati (sempre senza contaminazione da plastica) e li abbiamo spediti all’Università Politecnica delle Marche, dove l’equipe della professoressa Giorgini le ha esaminate utilizzando un microspettrometro Raman. Le 12 microparticelle che abbiamo trovato nelle 6 placente esaminate, misuravano intorno ai 10 micron, a eccezione di due frammenti più piccoli (circa 5 micron). Si tratta di valori compatibili con un possibile trasporto nel corpo attraverso il sangue materno. Le  particelle di questa dimensione riescono a entrare nel corpo umano attraverso varie vie (percutanea, gastrointestinale, respiratoria) e a circolarvi più o meno liberamente.

Le dimensioni comprese tra i 5 e i 10 micron in effetti potrebbero dirsi “cellulari” in quanto molte cellule umane, soprattutto quelle circolanti, hanno dimensioni simili (i globuli rossi, per esempio, misurano circa 8 micron), e anche cellule non umane sfruttano questo intervallo dimensionale per entrare nel nostro corpo: le cellule batteriche, infatti, hanno una lunghezza media che varia tra gli 0,5 e i 5 micron, sebbene esistano batteri che possono essere visti anche a occhio nudo, tanto sono grandi.

Ma come abbiamo capito che i dodici pezzettini da noi trovati all’interno delle placente umane erano composti da plastica? A darci la risposta è stato il loro colore. O meglio, la loro pigmentazione. Tutti erano infatti pigmentati. Gli spettri Raman dei campioni rivelano, più di ogni altra cosa, i pigmenti utilizzati per la colorazione delle plastiche, questo perché la struttura stessa delle molecole dei pigmenti aumenta il segnale Raman emesso con la microspettroscopia. A questo punto è bastato confrontare gli spettri trovati nei campioni con gli oltre 12000 spettri presenti nel database di riferimento spettrale più grande del mondo, per scoprire la natura dei pigmenti contenuti nei frammenti placentari”.

Interferenti endocrini: come tutelare i nostri bambini

“La presenza di Mp nel tessuto placentare, che è un organo composto da tessuti materni e fetali, significa che la plastica è arrivata a colonizzare i bambini nel grembo materno. Questo fatto richiede la riconsiderazione del meccanismo immunologico dell’auto tolleranza. La placenta rappresenta l’interfaccia tra il feto e l’ambiente. Embrioni e feti devono adattarsi continuamente all’ambiente materno e indirettamente all’ambiente esterno, attraverso una serie di risposte complesse, che utilizzano i noti meccanismi del feedback come sistema di adattamento primario. In pratica l’ambiente esterno pone delle sfide ambientali al feto confinato nel grembo materno, che deve continuamente modificare i suoi processi di sviluppo e crescita per adattarsi a ciò che troverà all’esterno del corpo materno una volta nato.

La presenza di microplastiche nel tessuto placentare richiede dunque la riconsiderazione del meccanismo immunologico dell’autotolleranza, poiché potrebbero perturbarlo. È infatti stato riferito che, una volta presenti nel corpo umano, le microplastiche possono accumulare ed esercitare tossicità localizzata inducendo e/o potenziando le risposte immunitarie e, quindi, riducendo potenzialmente i meccanismi di difesa contro i patogeni e alterando l’utilizzo delle riserve di energia.

Ciò significa che è probabile che la presenza di microplastiche possa modificare il modo in cui l’organismo, anche da adulto, gestisce il metabolismo dei grassi, forse attraverso modificazioni epigenetiche. Tutto ciò è ampiamente dimostrato negli animali da esperimento, compresi i mammiferi. Nell’uomo ancora non sappiamo quali saranno le effettive conseguenze, il nostro è stato il primo studio e la scienza ha bisogno di tempo per declinare risultati riproducibili.

La questione, comunque, non è “solo” la plastica. Le sostanze chimiche presenti nei prodotti in plastica, tra cui per esempio ftalati e bisfenolo A (BPA), agiscono infatti quali interferenti endocrini. Gli interferenti endocrini hanno una struttura simile agli ormoni sessuali naturali e interferiscono con il normale funzionamento di essi. Nei bambini, che sono ancora in fase di crescita e sviluppo, questo può costituire un problema”.

“Il fatto che l’inquinamento da microplastica negli oceani sia sottovalutato non è una novità, tuttavia esso influisce sull’ecosistema marino, sul turismo costiero e persino sulla salute umana. Gli animali che vivono negli oceani come pesci, balene, uccelli marini e tartarughe, ingeriscono infatti inconsapevolmente plastica. Nel 2019, su una spiaggia scozzese, si è arenato un capodoglio morto che aveva più di cento chili di rifiuti nello stomaco: reti, corde, bicchieri e sacchetti di plastica, materiali da imballaggio. Ovviamente il suo non è un caso isolato.

I ricercatori di Oceana, la più grande organizzazione mondiale per la conservazione degli oceani, hanno infatti dimostrato che, dal 2009 al 2019, circa 1.800 tra mammiferi e tartarughe marine appartenenti a 40 specie diverse sono rimasti soffocati o impigliati nella plastica. Di questi, l’88% erano specie in via di estinzione o minacciate di estinzione ai sensi dell’Endangered Species Act, tra cui lamantini, foche monache hawaiane e tutte le sei specie di tartaruga marina americana. Il rapporto è dettagliato e vi si trovano anche le storie di alcuni di questi sfortunati animali. Per esempio, quella di una tartaruga marina, annegata dopo che un sacchetto di plastica riempito di sabbia le si è avvolto intorno al collo, o quella di una balenottera che, dopo aver ingoiato una custodia di dvd che le ha lacerato le viscere, ha sviluppato ulcere gastriche, o ancora quella di un capodoglio pigmeo, nel cui stomaco è stato ritrovato soltanto un sacchetto di plastica. In altri casi, invece, nelle viscere degli animali esaminati è stato trovato di tutto: borse, palloncini, lenze da pesca, teli di plastica, involucri alimentari.

Plastica, Coca-Cola è l’azienda che produce più inquinamento

Basta pensare che la prima causa di morte nelle tartarughe marine è la plastica! Inoltre è provato sperimentalmente che le microplastiche ingerite dagli organismi marini minano il loro metabolismo, alterando la loro fertilità e i loro meccanismi di produzione dell’energia. Le microplastiche raccolte nei mari sono state colonizzate da alghe e altri microorganismi. Questo processo, noto come biofouling, comporta una straordinaria commistione simbiotica, della quale ancora non conosciamo le conseguenze: per esempio, il biofouling determina sospensioni che portano in superficie i polimeri più̀ pesanti i quali, invece di depositarsi sul fondo del mare, galleggiano incrementando il loro potenziale inquinante. In definitiva, se continueremo a produrre e scaricare plastica ai ritmi odierni, entro il 2050, secondo il World Economic Forum, la plastica circolante negli oceani peserà più dei pesci che dentro vi abitano”.

Un mare di plastica: un viaggio alla ricerca dell’inquinamento invisibile

“Tutti possiamo ridurre i rifiuti di plastica riutilizzando e riciclando la plastica, non comprando, laddove possibile oggetti in plastica di dubbia utilità e sostituendoli con oggetti prodotti con materie riciclabili, non usando le bottiglie d’acqua e di bibite gasate di plastica e i sacchetti di plastica per fare la nostra spesa quotidiana. Tutti possiamo utilizzare alternative alla plastica: sacchetti per la spesa in tessuto, sacchetti di plastica biodegradabili, sacchetti di iuta, cannucce di metallo e posate non in plastica.

Infertilità, l’inquinamento atmosferico è una delle possibili cause

Quasi la metà (44,8%) della produzione di polimeri plastici è utilizzata per gli imballaggi, tutti possiamo supportare le aziende locali che promuovono un approccio ecologico alla produzione e al commercio dei loro prodotti e sfavorire le aziende che non utilizzano questo approccio, riempendo di plastica inutile i nostri pacchi. Infine dobbiamo essere consapevoli che non risolveremo il problema della plastica semplicemente utilizzando ingegnosi marchingegni per ripulire i mari gli oceani i fiumi e i territori inquinati dalla plastica, semplicemente perché sebbene questo possa essere lodevole, nuova plastica arriverà e sostituirà la vecchia plastica che abbiamo tolto e secondariamente non possiamo pensare di trattare i nostri mari come se fossero semplicemente un cassonetto della spazzatura, da riempire e da svuotare, dobbiamo entrare nell’ambito della complessità.

Ma non saranno le scelte individuali che ci salveranno da una “morte plastica” sebbene esse possano essere da esempio di comportamenti virtuosi e “contagiare” positivamente gli altri. Neanche il riciclaggio, per quanto virtuoso ed utile salverà il pianeta (oggi si ricicla meno del 9% della plastica prodotta). Sebbene questi comportamenti virtuosi individuali siano importanti e possano rappresentare un utile esempio, non sono sufficienti a risolvere il problema rappresentato dalle 368 milioni di tonnellate di plastica prodotte nel 2019: ecco perché è indispensabile l’azione di governi illuminati, espressione di elettori coscienti delle priorità politiche del pianeta, che si impegnino nel cambiamento e nella riduzione della produzione di plastica. La plastica ha gradualmente sostituito tutto negli ultimi sessanta anni, ora è arrivato il momento di sostituirla a sua volta.

Si deve assolutamente ridurre la produzione di plastica, ma questo non è ciò che sta avvenendo, anzi la recente crisi determinata dal Covid, ha fatto si che le maggiori aziende petrolchimiche mondiali, soprattutto statunitensi e cinesi abbiano riconvertito i loro sistemi di produzione carburanti, incrementando la produzione di plastica “vergine”. L’industria della plastica in Cina ha registrato uno sviluppo costante nei primi tre trimestri dell’anno in corso, con i ricavi aggregati dei fornitori in aumento del 16,5% su base annua.

Le aziende che producono ed usano la plastica, dovrebbero essere costrette ad occuparsi della fine che gli oggetti faranno dopo, una volta che dovranno essere smaltiti, come si fa con le pile esauste, dove il costo dello smaltimento è a carico del produttore. In base a questo approccio di politica ambientale, la responsabilità di un produttore dovrebbe essere estesa alla fase post-consumo del ciclo di vita di un prodotto, a differenza di quanto attualmente avviene. In pratica non è concepibile che le aziende producano a pieno regime beni, che vengono messi in circolazione nell’ambiente comune, la nostra Terra, senza accollarsi i costi ambientali del riciclo o della dismissione di questi stessi beni. Al contrario, essi dovrebbero essere rigidamente compresi nei costi di produzione dell’oggetto, comportando un aggiustamento virtuoso dei prezzi di mercato, che consentirebbe di sostituire la plastica con materiali più convenienti dal punto di vista ambientale”.

“Il decalogo iniziale per affrontare il problema potrebbe essere il seguente:

Sosteneva Camus nel saggio L’uomo in rivolta che: ‘per essere, l’uomo deve ribellarsi’. Solo cosi è possibile dare un senso alla propria esistenza, la ragione della rivolta sta: ‘…Nel voler servire la giustizia per non accrescere l’ingiustizia della condizione umana, nello sforzarsi al linguaggio chiaro per non infittire la menzogna universale e nel puntare, malgrado la miseria umana, sulla felicità’”.

Giornalista e saggista, ha scritto di ecologia, ambiente e mobilità sostenibile per numerose testate fra cui Gazzetta, La Stampa Tuttogreen, Ecoblog, La Nuova Ecologia, Terra, Narcomafie, Slow News, Slow Food, Ciclismo, Alp ed ExtraTorino. Ha pubblicato numerosi saggi fra cui “Giornalismo online”, “Propaganda Pop”, "Cronofagia" e "Geomanzia".

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