marxismo.net - Guide alla lettura

2022-06-25 07:07:07 By : Mr. Ford Jeffrey

GUIDA ALLA LETTURA DEL MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA

Inauguriamo oggi una nuova rubrica del nostro sito, in cui verranno pubblicate una serie di guide alla lettura dedicate ai testi classici del marxismo. L’idea è quella di aiutare i nostri lettori ad assimilare i concetti chiave della teoria marxista, attraverso gli scritti dei grandi rivoluzionari del passato.

Per tutte le opere più importanti di Marx, Engels, Lenin e Trotskij, realizzeremo una breve scheda con: 1. Un’introduzione storica al testo; 2. Un rapido riassunto dei singoli capitoli; 3. Una serie di domande per favorire la riflessione e la discussione sugli argomenti trattati.

Per cominciare, non potevamo partire che con il libro dal quale tutto ha avuto inizio: il Manifesto del Partito comunista di Karl Marx e Friedrich Engels. Il libro è reperibile nella nostra libreria marxista.

Scritto nel 1847-48 da Karl Marx e Friedrich Engels, su incarico della Lega dei Comunisti di Londra, questo breve libro espone i principi fondamentali e la tattica del nascente movimento comunista di quel periodo, lo “spettro che si aggira per l’Europa”.

A differenza di molte altre opere di quell’epoca, il Manifesto del Partito comunista rimane una delle opere letterarie più influenti che siano mai state pubblicate. Sebbene sia stato scritto più di 170 anni fa, le idee, il metodo e le lezioni politiche in esso contenute mantengono la loro notevole freschezza. Anche se alcuni riferimenti alle figure politiche del tempo e alcune (ma non tutte) delle concrete rivendicazioni politiche avanzate alla fine del capitolo 2 sono state superate dagli eventi, la maggior parte del testo è come se fosse stata scritta solo ieri, con la sua spiegazione del potere schiacciante del mercato capitalista globale, della mercificazione del lavoro e delle abilità degli esseri umani e della divisione sempre crescente tra ricchi e poveri. Nonostante la data della sua pubblicazione, il Manifesto del Partito comunista è ancora oggi un’arma formidabile ed essenziale nell’arsenale dei rivoluzionari di tutto il mondo.

Nel suo messaggio il Manifesto è forse ancora più rilevante oggi di quando è stato scritto. Nel 1848 l’intera Europa era sull’orlo di una serie di rivoluzioni democratiche che avrebbero scosso il vecchio ordine assolutista, ma nelle quali la classe operaia non era ancora abbastanza sviluppata per arrivare al potere. Oggi, con la crisi profonda del sistema capitalistico globale, l’ultima frase del Manifesto non è mai stata così potente e urgente: “Lavoratori di tutti i paesi, unitevi!”

Per Marx e Engels, “la storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi”. In questo capitolo, espongono ampiamente la storia della società di classe, in particolare della lotta della borghesia contro il sistema feudale in decadenza. E spiegano come la borghesia, dopo aver preso il potere in un paese, è costretta dal suo stesso sistema a rivoluzionare la produzione su scala mondiale, creando così “il suo becchino”: il proletariato.

Cosa intendono i marxisti per “classe”?

Cosa sono la borghesia e il proletariato?

Quale relazione esiste tra lo sviluppo economico e la lotta politica? Possiamo trovare esempi di questo nella società di oggi?

Cosa intendono Marx e Engels quando scrivono, “La borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria”?

In che modo questo capitolo prevede in anticipo la globalizzazione?

In che senso il capitalismo “rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate”?

Come si forma il proletariato sotto il capitalismo?

Qual è il ruolo dei sindacati per Marx e Engels?

In questo capitolo, Marx e Engels prima spiegano il ruolo dei comunisti nella lotta di classe e poi rispondo ad alcune delle principali accuse rivolte ai comunisti dai detrattori borghesi dell’epoca. Nel rispondere ai loro critici, Marx e Engels offrono ulteriori chiarimenti e spiegazioni sulle loro idee, ad esempio sulla questione di cosa si intende con “l’abolizione della proprietà privata” e della “famiglia borghese”, questioni che vengono sollevate ancora oggi. Infine, Marx e Engels espongono una lista di rivendicazioni che devono essere avanzate dai comunisti.

- Quali lezioni possiamo trarre dall’affermazione che “I comunisti non sono un partito particolare di fronte agli altri partiti operai”?

- Come possono i comunisti mettere “in rilievo” e far “valere gli interessi comuni, indipendenti dalla nazionalità, dell’intero proletariato”?

- Cos’è il “capitale”? Cos’è il “lavoro salariato”? E come si relazionano l’uno con l’altro?

- Qual è il ruolo dell’individuo in una società comunista?

- Cosa intendono Marx e Engels con “l’abolizione della famiglia”?

- Qual è il ruolo dello Stato, e che forma assumerebbe lo Stato in una società comunista?

Capitoli 3 e 4: Letteratura socialista e comunista – Posizione dei comunisti di fronte ai diversi partiti di opposizione

Nei capitoli finali del Manifesto del Partito comunista, Marx e Engels analizzano le altre tendenza socialiste presenti nella società. Nel farlo, ci forniscono un ulteriore approfondimento sulle caratteristiche specifiche delle loro idee. Oggi alcune delle tendenze che vengono criticate sono scomparse e sono quindi ormai di scarsa rilevanza. Tuttavia, alcune di esse, e in particolare il “socialismo borghese”, continuano a giocare un ruolo molto potente (e dannoso) nel movimento operaio e, di conseguenza, le critiche di Marx e Engels mantengono pienamente la loro forza anche ai giorni nostri.

In che senso il socialismo piccolo-borghese “è insieme reazionario e utopistico”?

Che cos’è il “vero” socialismo? E cosa gli conferisce le sue caratteristiche peculiari?

Quali esempi moderni di “socialismo borghese” possiamo trovare negli eventi politici recenti? Quale posizione dovrebbero assumere i comunisti nei confronti di questa tendenza?

Che cosa possiamo dire di positivo rispetto al socialismo “critico-utopistico”? Quali sono invece i suoi punti deboli?

Perché Marx e Engels danno il loro sostegno non solo a movimenti proletari come il cartismo in Inghilterra, ma anche a partiti democratici e nazionalisti in alcuni paesi?

GUIDA ALLA LETTURA DE L’EVOLUZIONE DEL SOCIALISMO DALL’UTOPIA ALLA SCIENZA 

Proponiamo di seguito una guida alle lettura de L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza di Fredrich Engels, uno dei testi che ha maggiormente contribuito – probabilmente secondo solo al Manifetso del Partito comunista – a divulgare le idee fondamentali del marxismo. Il libro è reperibile nella nostra libreria marxista

Questo opuscolo, pubblicato per la prima volta in francese nel 1880, è in realtà una raccolta di tre capitoli dell’Anti-Duhring di Engels, non solo un'opera polemica prodotta per combattere le “nuove” teorie socialiste di Eugen Dühring, ma anche, cosa più importante, “una rassegna enciclopedica della nostra concezione dei problemi filosofici, naturali e storici”, nelle parole di Engels. L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza condensa alcune delle idee chiave del libro di Engels in un opuscolo conciso e molto accessibile, che rimane ancora oggi uno dei migliori e più popolari compendi delle idee marxiste mai prodotti. In tre brevi e vivaci capitoli Engels affronta prima lo sviluppo del pensiero socialista pre-marxista, poi la filosofia dialettica, centrale nel metodo marxista, e infine il materialismo storico, l’applicazione del pensiero marxista all’evoluzione della società umana: la fonte delle conclusioni rivoluzionarie di Marx ed Engels. Come suggerisce la breve sintesi nelle righe precedenti, questo opuscolo è estremamente denso di contenuti e spunti e merita pienamente numerose letture. Inoltre, c’è l’introduzione di Engels sulla “storia del materialismo” e la “storia della classe media in Inghilterra” che offre sia una preziosa spiegazione e una difesa della filosofia materialista (di per sé un obiettivo rivoluzionario considerata l’enorme influenza del pensiero idealista e agnostico nella filosofia “rispettabile”), sia un corso avanzato di materialismo storico, che colloca l’evoluzione della filosofia e delle idee nel loro giusto contesto, come parte della rivoluzione nello sviluppo delle forze produttive e della lotta di classe.

Il primo capitolo dell’opuscolo di Engels è dedicato ai grandi socialisti “utopisti” della fine del XVIII secolo e dell’inizio del XIX: i progenitori del socialismo “scientifico” di Marx ed Engels. Fornendo una breve storia del pensiero socialista dall’inizio dell’era moderna in poi, Engels descrive i movimenti razionalisti, democratici e comunisti di quel periodo non soltanto come una battaglia di idee, ma piuttosto come le espressioni teoriche delle fasi di ascesa e di conflitto delle nuove classi emergenti nella società. Con lo stesso metodo, Engels passa poi ai primi frutti ideologici della neonata classe operaia in Gran Bretagna e in Francia: i “tre grandi utopisti” Saint-Simon, Jean-Baptiste Fourier e Robert Owen.

Analizzando brevemente ciascuna delle loro teorie, Engels non solo dimostra i difetti fatali e i limiti dei loro “sistemi sociali” ideali, ma li colloca anche nel proprio contesto storico, quello di una lotta di classe (tra borghesia e proletariato) che stava appena nascendo ed era per questa ragione ancora immatura nelle forme ed espressioni che assumeva. Questo si può vedere nel fatto che gli utopisti evitavano il termine classe operaia in favore di “popolo” in generale.

Comunque, Engels non manca di sottolineare l’importanza dei grandi contributi intellettuali e politici forniti da questi individui. Engels riserva le righe più dure a quei “filistei” che “fanno valere di fronte alle ‘follie’ degli Utopisti la superiorità del loro sobrio modo di pensare”. Per Engels, nonostante gli errori, c’erano molte parti corrette nelle loro teorie imperfette, e molto che lui e Marx hanno successivamente ereditato.

In definitiva, partendo dalla disamina dei primi socialisti utopisti Engels inserisce anche il marxismo nel proprio contesto come prodotto degli sviluppi teorici dei precedenti socialisti e del proletariato moderno nel suo completo sviluppo materiale.

Il secondo capitolo dell’opuscolo di Engels si concentra su come la storia della filosofia è culminata con Hegel: dai filosofi dell’Antica Grecia e dalla loro dialettica meno sviluppata, alla metafisica e fino alla dialettica nella sua forma hegeliana. 

Engels analizza gli errori dei metafisici. Una questione fondamentale che sottolinea è l’incapacità di comprendere le contraddizioni. Engels spiega che “i due poli dell’antitesi sono tanto inseparabili quando opposti”. Questo è un aspetto fondamentale della dialettica che viene introdotto in questo capitolo e che Engels inserisce nel contesto della realtà concreta, spiegando che la natura è una prova di questo fenomeno.

Engels parla molto bene di Hegel e del modo brillante con cui ha liberato la storia dalla metafisica. Ciononostante, Engels mostra anche gli errori di Hegel determinati dal suo idealismo, che gli faceva vedere la storia rovesciata da cima a fondo.

Engels termina il capitolo parlando del materialismo di Marx, che rimette la dialettica nel verso giusto. Dopo aver spiegato brevemente le ragioni dello sfruttamento capitalista, conclude sottolineando che ciò che Marx ha fatto per il socialismo è stato trasformarlo in una scienza: “Con queste due grandi scoperte, il socialismo è diventato una scienza che ora occorre innanzitutto elaborare in tutti i suoi particolari e nessi”.

Engels inizia questo capitolo spiegando che la comprensione della realtà materiale è la chiave per la comprensione della società, e che è la realtà economica, non le idee, ad essere il fattore più importante sul quale si modella la società. Questa, in sostanza, è la spina dorsale del materialismo storico. Engels poi traccia il processo che ha portato alla nascita del capitalismo, conducendo il lettore attraverso la transizione dal feudalesimo al capitalismo e quindi all’instaurazione della moderna borghesia. Spiega come siano stati sviluppati i mezzi di produzione, e come sia cambiata la divisione del lavoro. Qui vediamo un salto improvviso verso dalla produzione di merci per la mera sussistenza alle fabbriche organizzate per produrre merci da vendere sul mercato. Prima, le merci appartenevano soltanto alla persona che le aveva prodotte, in quanto una persona sola era generalmente responsabile della sua produzione. Questo fondamento chiaro delle proprietà non è stato più possibile dal momento in cui ogni merce diventò il prodotto di molti lavoratori, e quindi la proprietà privata cominciò ad assumere il significato di sfruttamento di coloro che lavoravano, ma non possedevano nulla. Engels afferma che ci deve essere una fine al capitalismo, ridefinendo la società non come un circolo, ma come una spirale che ritorna ai punti precedenti, ma ad un livello più alto. Ripercorre la storia dello sviluppo dei nuovi mezzi di produzione, osservando come le macchine si svilupperanno sotto il capitalismo. Parla della sovrapproduzione e spiega perché il capitalismo arriva alla sovrapproduzione, e soprattutto perché questo diverrà una piaga che minaccerà l’esistenza della società capitalista.

Partendo da questo, l’opuscolo poi ci fornisce un chiarimento sulla macchina dello Stato: a cosa serve e come si estinguerà con il socialismo. Nel socialismo “lo Stato non viene abolito; esso si estingue”, spiega Engels.

Infine Engels traccia la storia degli Stati dalla società medievale alla futura rivoluzione proletaria. Nel farlo, spiega l’importanza dell’autentico socialismo scientifico.

GUIDA ALLA LETTURA DI LAVORO SALARIATO E CAPITALE DI KARL MARX

Presentiamo una guida alla lettura di Lavoro salariato e capitale , che può aiutare a comprendere le idee chiave di questo testo classico di Karl Marx sull’economia. Il testo originale è reperibile qui

In Lavoro salariato e capitale , Marx espone sinteticamente le basi di una teoria dei rapporti di produzione capitalisti. Questo testo fu pubblicato per la prima volta nell'aprile del 1849 sulla Neue Rheinische Zeitung (La Nuova Gazzetta Renana), un giornale che Marx aveva fondato e dirigeva a Colonia, dopo il propagarsi del fermento rivoluzionario dalla Francia alla Germania nel marzo del 1848.

Marx pubblicò più di 80 articoli sulla Neue Rheinische Zeitung . Il primo numero uscì nel giugno 1848. Il sottotitolo di questo giornale era «organo della democrazia» e, all'inizio, sosteneva i liberali radicali, che erano l'ala sinistra del Parlamento di Francoforte, contro il re di Prussia (Federico Guglielmo IV). Tuttavia, nell'aprile del 1849, in seguito all'attività controrivoluzionaria da loro svolta in Francia e Germania, Marx abbandonò la politica di cooperazione con i liberali radicali e sostenne la creazione di un partito operaio indipendente. In risposta alla sua nuova linea rivoluzionaria, il governo chiuse il giornale nel maggio del 1849 e a quel punto Marx tornò a Parigi.

Marx aveva consegnato cinque articoli, che furono pubblicati sulla Neue Rheinische Zeitung, tratti da una serie di interventi da lui tenuti alla Società Operaia Tedesca di Bruxelles, nella seconda metà di dicembre del 1847. Marx ed Engels avevano fondato la Società per intervenire tra quei lavoratori tedeschi che erano emigrati in Belgio in cerca di migliori condizioni di vita. Tuttavia, nel febbraio del 1848, in seguito allo scoppio del movimento rivoluzionario in Francia, la polizia belga arrestò ed espulse i membri della Società e Marx fu costretto a trasferirsi a Parigi. Così gli fu precluso di pubblicare Lavoro salariato e capitale a Bruxelles nel febbraio del 1848, come aveva avuto inizialmente intenzione di fare.

Lavoro salariato e capitale rappresenta la prima esposizione sistematica di Marx della sua teoria delle relazioni economiche nella società capitalista. In questi articoli introduce alcune idee che svilupperà ad un livello molto più alto nelle sue opere successive, specialmente nel Capitale . In breve, Marx ci fornisce uno schema facilmente accessibile delle relazioni economiche che costituiscono le condizioni materiali della lotta di classe nella società capitalista.

Tuttavia, sebbene gli articoli pubblicati sulla Neue Rheinische Zeitung si basino sugli interventi che Marx aveva tenuto alla Società Operaia Tedesca, non comprendono l'intero contenuto di queste riunioni. Inoltre, Engels pubblicò un'edizione di Lavoro salariato e capitale a Berlino nel 1891, dopo aver modificato il testo, per allinearne la terminologia con lo sviluppo del pensiero di Marx successivo al 1849. Nell'introduzione a questa edizione, Engels scrive:

«Tra il 1840 e il 1850 Marx non aveva ancora condotto a termine la sua critica dell'economia politica. Ciò avvenne solo verso la fine del decennio 1850-1860. I suoi scritti apparsi prima del primo fascicolo: Per la critica dell'economia politica (1859), si allontanano quindi in taluni punti da quelli che furono composti dopo il 1859, contengono espressioni e interi periodi che, confrontati con gli scritti successivi, appaiono infelici e persino inesatti.»

Poiché Engels voleva che la sua edizione fosse usata come strumento di propaganda tra i lavoratori, modificò il testo dell'edizione originale di conseguenza. Come scrive:

«Le mie modificazioni si aggirano tutte attorno ad un sol punto. Secondo l’originale, l’operaio vende al capitalista per un salario il suo lavoro ; secondo il testo attuale egli vende la sua forza-lavoro .»

Questa distinzione, tra lavoro e forza-lavoro, è il fondamento della cosiddetta teoria del valore-lavoro di Marx; senza di essa è impossibile capire l'origine del plusvalore e le leggi di sviluppo del sistema di produzione capitalista.

Marx innanzitutto espone lo scopo della sua opera, che è quello di esaminare le relazioni economiche nella società capitalista ed esporre alla classe operaia «la base materiale delle lotte attuali tra le classi e le nazioni». Marx fu spinto a farlo per combattere l'ignoranza in materia e chiarire la confusione sui rapporti economici che era stata provocata da «socialisti miracolisti» e «geni politici incompresi», così come da «difensori patentati delle condizioni esistenti». Naturalmente, combattere l'influenza del pensiero economico borghese sulla coscienza della classe operaia è un compito in cui i marxisti devono impegnarsi ancora oggi.

Per il senso comune, il salario, ci dice Marx, non è che una somma di denaro che il capitalista paga al lavoratore «per un certo tempo di lavoro o per una certa prestazione di lavoro». Nel XIX secolo questo poteva consistere nel tessere un metro di lino, se il lavoratore veniva pagato a pezzo, o poteva consistere nel tessere lino per un numero specifico di ore al giorno, se il lavoratore veniva pagato ad ore. Qui si trova una semplice relazione di scambio: il capitalista acquista lavoro con denaro, mentre l’operaio vende lavoro per denaro. Risulta quindi che il salario è uguale al valore del lavoro svolto, e questa consapevolezza è espressa nel detto, che sentiamo ancora oggi, “un giusto giorno di lavoro per una giusta paga”.

Ma le cose non stanno così, perché in effetti il capitalista sta comprando e l’operaio sta vendendo, non lavoro (cioè una particolare quantità di lavoro da svolgere), ma forza-lavoro , cioè la sua capacità di lavorare. Nell'edizione del 1891, Engels modifica il testo originale per chiarire questo punto:

«Ma ciò non è che l’apparenza. Ciò che essi [i lavoratori] in realtà vendono al capitalista per  una somma di denaro è la loro forza-lavoro . Il capitalista compera questa forza-lavoro per un giorno, una settimana, un mese, ecc. E dopo averla comperata, egli la usa, facendo lavorare gli operai per il tempo pattuito.»

Distinguendo tra lavoro e forza-lavoro, Marx sta distinguendo tra il prodotto definito del lavoro e la capacità lavorativa.

Quindi il salario non è uguale al valore del lavoro effettivamente svolto, il “lavoro”, ma è uguale al valore della capacità di lavorare, cioè della forza-lavoro. Poiché, sotto il capitalismo, la forza-lavoro può essere comprata e venduta, non è che una merce e quindi ha un valore di scambio: è  cioè uguale ad una certa quantità di altre merci, con le quali può essere scambiata. Il valore di scambio di una merce, valutato in denaro, viene definito il suo prezzo . Il salario è il prezzo della forza-lavoro.

L'affermazione che il salario è uguale al valore del lavoro svolto è un principio centrale dell'economia borghese classica. Distorcendo la nostra comprensione della realtà economica, il pensiero economico borghese nasconde lo sfruttamento del lavoratore salariato da parte del capitalista.

Ciò che tutto questo implica, secondo Marx, è che «il salario non è, dunque, una partecipazione dell’operaio alla merce da lui prodotta. Il salario è quella parte di merce, già preesistente, con la quale il capitalista si compera una determinata quantità di forza-lavoro produttiva.». I salari non possono essere «una partecipazione dell’operaio alla merce da lui prodotta» perché il capitalista paga il salario non con il denaro che riceverà dalla vendita delle merci finite in futuro, ma con “denaro d’anticipo”, con un capitale preesistente. Il capitalista usa questo denaro per comprare non solo la forza-lavoro, ma anche le materie prime (per esempio il cotone) e gli strumenti di lavoro (per esempio il telaio). L’operaio lavora poi il filo di cotone per realizzare una tela di tessuto, che è destinata alla vendita; ma se il capitalista trova o meno un compratore per il bene finito e se lo vende in modo molto vantaggioso, questo dipenderà dalle condizioni concrete esistenti sul mercato, ma non ha conseguenze sulle somme che ha dovuto anticipare per comperare le materie prime, gli strumenti di lavoro e anche la forza-lavoro degli operai.

Marx ci ricorda anche che la mercificazione generalizzata della forza-lavoro è specifica del sistema di produzione capitalista. Per esempio, nel sistema schiavista, tutta la persona, non solo la sua forza- lavoro, è proprietà di un altro individuo. Come dice Marx, uno schiavo «è una merce che può passare dalla mani di un proprietario a quelle di un altro. Egli stesso è una merce, ma la forza-lavoro non è merce sua .» Al contrario, sotto il sistema feudale della servitù della gleba, il servo dà al signore parte della sua forza-lavoro, sotto forma di quote di lavoro eseguite sulla terra di cui il signore è proprietario o di prodotti della terra di cui il servo è proprietario. Poiché sotto la servitù della gleba il servo è legato alla terra, la sua forza-lavoro non può essere una merce. Al contrario, sotto il capitalismo i lavoratori salariati non sono legati ad un particolare padrone e sono liberi di vendere la loro forza- lavoro al miglior offerente. Come dice Marx, sotto il capitalismo:

«L’operaio non appartiene né a un proprietario, né alla terra, ma 8, 10, 12, 15 ore della sua vita quotidiana appartengono a colui che le compera. L’operaio abbandona quando vuole il capitalista al quale si dà in affitto, e il capitalista lo licenzia quando crede, non appena non ricava più da lui nessun utile o non ricava più l’utile che si prefiggeva.»

Ora, è perché i lavoratori salariati sono privati della proprietà dei mezzi di produzione che devono vendere la loro forza-lavoro a un capitalista per sopravvivere. Come dice Marx, «l’operaio, la cui sola risorsa è la vendita della forza-lavoro, non può abbandonare l'intera classe dei compratori, cioè la classe dei capitalisti , se non vuole rinunciare alla propria esistenza.» Questa situazione ha due implicazioni.

- Primo, la libertà economica per i lavoratori salariati è limitata dal fatto che, sebbene sia loro possibile, in certe condizioni, spostarsi da un capitalista all’altro, come classe sono incatenati alla classe dei capitalisti – contrariamente alla dottrina del liberalismo, che ci dice che tutti gli uomini e le donne sono ugualmente liberi.

- In secondo luogo, il lavoro diventa nient'altro che un mezzo per guadagnarsi da vivere e cioè le persone che sono costrette dalle circostanze sociali a vendere la loro forza-lavoro per sopravvivere, sono alienate. L’operaio dedica gran parte della sua “attività vitale” esclusivamente a procurarsi i mezzi di sussistenza necessari. “Ciò che produce per sé non è la seta che egli tesse, non è l’oro che estrae dalla miniera, non è il palazzo che egli costruisce. Ciò che egli produce per sé è il salario .”

Per essere chiari, in qualsiasi società il lavoro soddisfa un bisogno umano fondamentale; ma quando le persone non hanno il controllo sui mezzi e sul prodotto del loro lavoro e il lavoro diventa per loro semplicemente un mezzo per un fine, un’attività necessaria per garantire la propria sussistenza, non possono realizzare in maniera piena e soddisfacente la loro vita. Come spiega Marx, il lavoratore salariato “non calcola il lavoro come parte della sua vita: esso è piuttosto un sacrificio della sua vita.”

- Il salario è il prezzo di che cosa? 

- Qual è il valore del salario?

- Perché è irrazionale parlare di valore del lavoro?

- Qual è la differenza tra lavoro e forza-lavoro e perché è importante distinguerli?

- In che misura i lavoratori salariati sono liberi?

- In che modo i lavoratori salariati sono alienati?

Sostenendo che il salario è il prezzo della forza-lavoro, Marx argomenta cosa determina questo prezzo. Poiché la forza-lavoro è una merce, Marx inizia spiegando come si determina il prezzo delle merci in generale. Sostiene che questo è determinato nel mercato, attraverso il meccanismo della concorrenza. Marx ci dice che la concorrenza ha tre dimensioni.

- La prima dimensione è quella della concorrenza tra i venditori, ognuno dei quali cerca di vendere il proprio prodotto al prezzo più basso, per assicurarsi la quota maggiore di mercato e nella speranza di buttare fuori gli altri concorrenti dal mercato. Quindi la concorrenza tra chi deve vendere ha la tendenza a far scendere il prezzo delle merci.

- La seconda dimensione è quella della concorrenza tra i compratori, il cui effetto è una tendenza all'aumento del prezzo delle merci in vendita. Il prezzo tende ad aumentare perché ogni compratore è costretto a superare l'offerta di tutti gli altri compratori per entrare in possesso della merce desiderata.

- La terza dimensione è quella della competizione “tra i compratori e i venditori”, per cui i compratori “vogliono comperare il più che sia possibile a buon mercato”, mentre i venditori desiderano “vendere il più caro possibile”. Il risultato effettivo dipende dalla forza relativa della domanda e dell'offerta. Se la domanda è maggiore dell'offerta, il prezzo tenderà ad aumentare; al contrario, se l'offerta è maggiore della domanda, il prezzo tenderà a diminuire.

Marx riassume queste tre dimensioni usando un'analogia militare:

“L'industria mette in campo l’un contro l’altro due eserciti, ognuno dei quali sostiene una lotta nelle proprie file, tra le proprie truppe. L'esercito nei cui ranghi hanno luogo gli scontri più lievi, riporta vittoria sull’avversario.”

Avendo sostenuto che il prezzo di una merce è determinato dall'interazione delle forze della domanda e dell'offerta, Marx si chiede da che cosa è determinato tale rapporto. La sua risposta è che è determinato dai costi di produzione. Marx sostiene che il prezzo della merce fluttua a partire da questi costi, secondo l'interazione delle forze della domanda e dell'offerta.

- Se il prezzo di una merce sale sopra i costi di produzione, perché la domanda supera l'offerta, ciò indica che il capitalista sta realizzando un profitto. Quindi il capitale abbandonerà i settori meno redditizi dell'industria per entrare in quelli più redditizi, fino a quando l'aumento della produzione, e quindi dell'offerta, porterà il prezzo della merce sotto il costo della sua produzione.

- Al contrario, se il prezzo di una merce scende sotto i costi di produzione, perché l'offerta supera la domanda, ciò indica che il capitalista è in perdita. Quindi il capitale abbandonerà parzialmente quel settore meno redditizio e si dirigerà verso settori industriali più redditizi, fino a quando la diminuzione della produzione, e quindi dell'offerta, porterà il prezzo della merce sopra il costo della sua produzione.

Pertanto, il prezzo di qualsiasi merce «sta sempre al di sopra o al di sotto dei suoi costi di produzione». E, quando osserviamo le fluttuazioni dei prezzi all'interno di un particolare settore industriale per un certo periodo di tempo, troviamo che gli aumenti del prezzo sono compensati da diminuzioni del prezzo in modo che, in media, il prezzo tende a corrispondere ai costi di produzione.

Inoltre, ad accompagnare le fluttuazioni dei prezzi delle merci c'è “l'anarchia industriale”: la crescita e la distruzione di diversi settori dell'industria, in accordo con gli afflussi e i deflussi di capitale.

Dopo aver spiegato la determinazione del prezzo delle merci in generale, Marx considera la determinazione del prezzo della forza-lavoro. Poiché sotto il capitalismo la forza-lavoro è un tipo di merce, il suo prezzo è determinato nel modo in cui sono determinati i prezzi di tutti gli altri tipi di merce. Quindi il prezzo della forza-lavoro fluttua in base alla concorrenza tra i compratori di forza-lavoro, la classe dei capitalisti, e i venditori di forza-lavoro, la classe dei lavoratori salariati. Queste fluttuazioni avvengono però intorno ai costi di produzione della forza-lavoro e sul lungo periodo, il prezzo medio tenderà a corrispondere ai costi di produzione. 

Marx sostiene che i costi di produzione della forza-lavoro sono i costi: 

-  della sussistenza, di quanto è cioè necessario per mantenere (o tenere in vita) un lavoratore 

- della educazione e formazione dei lavoratori, in modo che abbiano il livello appropriato di conoscenze e abilità

- del reintegro dell’offerta di lavoratori, o di riproduzione della forza-lavoro, perché col tempo i lavoratori si “usurano” per l'uso prolungato della loro forza-lavoro e devono essere sostituiti

In media, quindi, il salario è uguale al costo relativo a sostenere, addestrare e “riprodurre” un lavoratore. 

- Cosa determina il prezzo di una merce?

- Da cosa è determinato il rapporto tra domanda e offerta? 

- Cosa determina i costi di produzione di una merce?

- Cosa determina il prezzo della forza-lavoro?

- Cosa determina i costi di produzione della forza-lavoro?

Dopo aver spiegato le leggi che governano i prezzi delle merci, Marx considera la natura del capitale. Sostiene che, contrariamente alla dottrina economica borghese, il capitale non consta solo di materie prime, di strumenti di lavoro e mezzi di sussistenza che vengono impiegati nella produzione; piuttosto, materie prime, strumenti di lavoro e mezzi di sussistenza diventano capitale solo nell’ambito di determinate relazioni sociali. “Una macchina filatrice di cotone è una macchina per filare il cotone. Soltanto in determinate condizioni essa diventa capitale .”

Qui Marx introduce il concetto di rapporti di produzione, cioè di quei rapporti sociali attraverso i quali i produttori si legano gli uni agli altri, scambiano le loro attività e partecipano alla produzione complessiva. 

Il capitale è un tipo specifico di rapporto sociale di produzione, che dipende non solo dall’esistenza di mezzi di produzione (materie prime e strumenti di lavoro), ma anche dall'esistenza di una classe di lavoratori salariati – cioè una classe di persone che sono prive della proprietà dei mezzi di produzione e che, di conseguenza, devono vendere la loro forza-lavoro per sopravvivere. Una somma di merci diventa capitale solo perché si conserva e si accresce attraverso lo scambio con la forza-lavoro.

Affinché la produzione sia possibile, deve avvenire uno scambio tra il capitalista e il lavoratore salariato. I capitalisti devono scambiare una parte del loro capitale con la forza-lavoro, mentre i salariati devono scambiare il controllo sulla loro forza-lavoro con i mezzi di sussistenza.

Esercitando la loro forza-lavoro sotto il controllo del capitalista, i lavoratori salariati trasformano le materie prime in merci e, in questo modo, aggiungono un valore extra a quelle materie prime. Come dice Marx, il lavoratore salariato “conferisce al lavoro accumulato un valore maggiore di quanto aveva prima”.

Se i capitalisti vendono la merce ad un prezzo che supera i costi di produzione, ottengono indietro non solo il valore delle materie prime e della forza-lavoro consumate e il deprezzamento degli strumenti di lavoro, ma anche un profitto. In questo modo i capitalisti aumentano la quantità di capitale a loro disposizione. Al contrario, tutto ciò che i lavoratori salariati possono fare è consumare i mezzi di sussistenza che ricevono (attraverso il salario) dal capitalista. Devono farlo se vogliono sopravvivere, ma devono anche sostituire i beni che hanno consumato lavorando di nuovo per il capitalista.

Ciò significa che le posizioni sociali del capitalista e del lavoratore salariato sono interconnesse: cioè l'una non può esistere senza l'altra. I capitalisti non potrebbero realizzare un profitto se non ci fosse una classe di persone disposte a vendere loro la propria forza-lavoro, mentre i lavoratori salariati non potrebbero sopravvivere se non potessero scambiare il controllo sulla loro forza-lavoro con i mezzi di sussistenza. Nelle parole di Marx:

«Il capitale presuppone dunque il lavoro salariato, il lavoro salariato presuppone il capitale. Essi si condizionano a vicenda; essi si generano a vicenda.»

Infine, Marx richiama la nostra attenzione sulla corrispondenza tra la natura dei rapporti di produzione e il carattere dei mezzi di produzione di una data società. 

“I rapporti sociali entro i quali gli individui producono, i rapporti sociali di produzione, si modificano, dunque, si trasformano con la trasformazione e con lo sviluppo dei mezzi materiali di produzione, delle forze produttive. I rapporti di produzione costituiscono nel loro assieme ciò che riceve il nome di rapporti sociali, di società, e precisamente una società a un grado di sviluppo storico determinato , una società con un carattere particolare che la distingue. La società antica , la società feudale , la società borghese sono simili complessi di rapporti di produzione, e ognuno di questi complessi caratterizza, nello stesso tempo, un particolare stadio di sviluppo nella storia dell’umanità.”   

In altre parole, non è un caso che la società feudale sia una società prevalentemente agricola e che la società capitalista sia una società prevalentemente industriale; vale a dire che c'è una connessione necessaria, nella società feudale, tra la produzione agricola limitata e i rapporti di produzione feudali così come c'è una connessione necessaria, nella società capitalista, tra la produzione meccanizzata e di massa per il mercato e i rapporti di produzione capitalisti.

- Da cosa dipende l'esistenza del capitale?

- Qual è la natura della relazione tra il capitalista e il lavoratore salariato?

- Perché la società feudale era prevalentemente agricola?

- Perché la società capitalista è prevalentemente industriale?

L'interdipendenza di capitalista e salariato è la base dell'affermazione degli economisti borghesi secondo cui gli interessi materiali di capitalisti e salariati sono gli stessi. Tuttavia, gli economisti borghesi trascurano il fatto che “tanto la integrazione del salario quanto l’eccedenza di profitto del capitalista vengono tratti, grosso modo, dal nuovo valore creato dal lavoro dell’operaio …”

Qui Marx introduce il concetto di salario relativo , cioè il rapporto tra il salario e il profitto del capitalista. L’aspetto decisivo è: del nuovo valore creato dall’operaio, quanta parte gli spetta in forma di salario e quanta ne spetta invece al capitalista in forma di profitto? 

Da questa premessa Marx parte per dimostrare che gli interessi del capitale e del lavoro salariato sono tra loro diametralmente opposti. Profitti e salari sono tra loro in rapporto inverso: “ La parte che va al capitale, il profitto, aumenta nella stessa proporzione in cui diminuisce la parte che va al lavoro, il salario giornaliero, e viceversa. ”

Questo contrasto inconciliabile non viene meno nemmeno nella migliore delle ipotesi, quando i salari nominali aumentano e le condizioni materiali dell’operaio migliorano. Quel che conta è la distribuzione sociale della ricchezza tra capitale e lavoro. Anche quando il salario nominale cresce, il salario relativo può diminuire, poiché il profitto del capitalista cresce incommensurabilmente di più. Se si accresce la parte della ricchezza prodotta che va ai capitalisti a discapito di quella che va ai lavoratori, se la ripartizione diventa ancora più diseguale, l’abisso sociale che separata borghesi e proletari diventa ancora più profondo. Inoltre, sfruttando sempre più forza-lavoro, i capitalisti aumentano la dimensione del loro capitale e quindi aumentano il loro dominio sulla classe dei lavoratori salariati.

“Dire che l’operaio ha interesse al rapido aumento del capitale significa soltanto che, quanto più rapidamente l’operaio accresce la ricchezza altrui, tanto più grasse sono le briciole che gli sono riservate, tanto più numerosi sono gli operai che possono essere impiegati e messi al mondo, tanto più può essere aumentata la massa degli schiavi alle dipendente del capitale.”

- Gli interessi dei capitalisti e dei lavoratori salariati coincidono?

- Quale differenza c’è tra salario reale e salario relativo? 

- Perché i salari e i profitti sono inversamente correlati?

- Perché la posizione materiale del lavoratore salariato peggiora rispetto alla posizione materiale del capitalista?

- Perché un aumento del capitale non è favorevole ai lavoratori salariati? 

In questo capitolo Marx considera l'effetto, sui salari, della crescente concorrenza tra capitalisti. Man mano che il numero di imprese capitaliste aumenta, aumenta anche l'intensità della concorrenza tra di esse. Quindi, per sopravvivere, ogni impresa deve aumentare la sua quota di mercato vendendo ad un prezzo inferiore a quello dei suoi concorrenti. Ma per vendere a un prezzo più basso è necessario ridurre i costi di produzione o, il che è la stessa cosa, aumentare la produttività del lavoro.

La produttività del lavoro può essere aumentata, ci dice Marx, sostituendo la forza-lavoro con le macchine ed approfondendo la divisione del lavoro. Nella misura in cui l'impresa capitalista riesce a ridurre i costi di produzione con questi mezzi, potrà vendere ad un prezzo appena inferiore a quello dei suoi concorrenti e quindi conquistare una quota maggiore di mercato. Si noti che:

- Conquistare una quota maggiore di mercato è una necessità, se il capitalista deve essere compensato adeguatamente per vendere al prezzo più basso e deve restare abbastanza forte da ripetere questo processo e rimanere in affari;

- Ripetere il processo è una necessità perché, una volta che i concorrenti si avvicinano e riducono i loro costi di produzione con gli stessi mezzi, il prezzo medio della merce su cui sono in competizione scenderà. In breve, per evitare la rovina, ogni impresa capitalista è costretta a suddividere e meccanizzare continuamente il processo di lavoro, così che con l'aumento della produttività si ha una continua trasformazione dei mezzi di produzione.

Ora possiamo capire perché le imprese capitaliste combattono tra loro nei tribunali per i brevetti, perché questo è un modo per tenere a bada la minaccia della concorrenza e proteggere la propria quota di mercato; e possiamo anche capire perché gli Stati capitalisti combattono le guerre, perché questo è un modo per espandere le dimensioni del mercato per le imprese capitaliste e quindi permettere loro di realizzare il valore di ciò che producono su scala di massa.

Nella parte finale del testo, Marx parla ulteriormente dell'effetto sui salari della concentrazione del capitale. L'aumento della divisione del lavoro e della meccanizzazione del processo lavorativo, per esempio, rappresenta un aumento della concorrenza tra i lavoratori salariati non qualificati. Questo perché, dato che la forza-lavoro viene continuamente suddivisa e i lavoratori qualificati vengono continuamente sostituiti dalle macchine:

In queste condizioni i salari tendono a diminuire, con il risultato che gli occupati devono lavorare più a lungo o con maggiore intensità per guadagnare abbastanza per sopravvivere.

Il grado di competizione tra i lavoratori salariati è amplificato a causa della rovina:

In breve, un'altra conseguenza della concentrazione del capitale è la proletarizzazione delle classi medie, cioè della piccola borghesia.

Il risultato della crescente competizione tra i capitalisti e tra i salariati è che le crisi di sovrapproduzione diventano più gravi e frequenti. In particolare:

- Come possono i capitalisti aumentare la loro quota di mercato?

- Qual è la conseguenza, per i salari dei lavoratori, di un aumento della produttività?

- Qual è la conseguenza, per i salari dei lavoratori, di un aumento della divisione del lavoro e della meccanizzazione del processo lavorativo?

- Quali sono le conseguenze, per il sistema di produzione capitalista, dell'aumento della concorrenza tra capitalisti e salariati?

GUIDA ALLA LETTURA DI STATO E RIVOLUZIONE

Proponiamo di seguito una guida alla lettura di Stato e Rivoluzione di Lenin, per aiutare a comprendere le idee chiave di questo classico del marxismo. Il libro è reperibile nella nostra libreria marxista.

Scritto da Lenin tra l’agosto e il settembre del 1917, Stato e Rivoluzione fornisce una presentazione esaustiva della teoria marxista dello Stato. Scritto nel caratteristico stile chiaro e incisivo di Lenin, questo libro è un caposaldo del marxismo rivoluzionario.

Esponendo le idee di Marx ed Engels sullo Stato, Lenin rivolge la propria critica contro «l’adattamento piatto, servile dei “capi del socialismo” agli interessi non solo della “propria” borghesia nazionale, ma precisamente del “proprio” Stato». Parole quanto mai attuali, dal momento che ancora oggi i leader della cosiddetta sinistra non mancano di subordinarsi interamente ai “loro” Stati e agli interessi della "loro" borghesia nazionale, mentre di fronte ai lavoratori predicano pacifismo e compromesso. Tuttavia, al contrario degli anarchici, Lenin non si limita ad invocare l'abolizione dello Stato o il rifiuto del potere statale in sé e per sé. Seguendo la concezione di dittatura del proletariato formulata da Marx ed Engels, Lenin rivendica l’abbattimento dello Stato borghese e la sua sostituzione con uno Stato operaio, il cui compito sia quello di espropriare e vincere la resistenza della classe dominante. Senza di questo, il rovesciamento della società di classe, la base materiale necessaria all’estinzione dello Stato, non sarebbe possibile.

Vale la pena sottolineare come il libro sia stato scritto nel bel mezzo della Rivoluzione russa. Come scrive lo stesso Lenin nella prefazione: «La questione dell’atteggiamento della rivoluzione socialista del proletariato nei confronti dello Stato acquista quindi un significato non solamente politico pratico, ma assume anche un carattere di scottante attualità, perché si tratta di far comprendere alle masse che cosa dovranno fare per liberarsi, in un avvenire prossimo, dal giogo del capitale.» Invece di provare ad improvvisare la sua posizione sulla spinta degli eventi, Lenin torna a Marx ed Engels ed elabora il suo programma rivoluzionario basandosi su un approccio serio verso la teoria marxista. È a questa tradizione che ci rivolgiamo con orgoglio ancora oggi.

Capitolo 1: La società classista e lo Stato Nel primo capitolo di Stato e Rivoluzione Lenin pone le basi per le successive argomentazioni lasciando che siano gli stessi Marx e (soprattutto) Engels a parlare dell'origine e del ruolo dello Stato nella società. Basandosi sua una serie di citazioni particolarmente eloquenti da L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato e dall'Anti-Duhring di Engels, Lenin delinea i principi fondamentali della posizione marxista sullo Stato in contrapposizione alle distorsioni degli opportunisti come Karl Kautsky, in quegli anni il principale teorico della socialdemocrazia tedesca.

Dividendo il capitolo in quattro sezioni, arriva ad alcune conclusioni fondamentali: lo Stato sorge dalla divisione della società in classi; esiste per imporre l'ordine della classe dominante, la classe possidente, sulle masse sfruttate e non per “riconciliare” le classi in lotta nella società; svolge questa funzione affidandosi alla forza armata; nel prendere il potere, il proletariato abolisce questo Stato e lo sostituisce con la dittatura del proletariato, il cui destino è quello di «estinguersi» quando si eliminano gli antagonismi di classe; tutto questo è impossibile senza una rivoluzione violenta.

È sulla base di queste idee fondamentali che Lenin analizza le esperienze storiche di altre rivoluzioni e sviluppa ulteriormente la propria posizione sullo Stato. Sono proprio queste idee a costituire la linea di demarcazione tra marxismo rivoluzionario e riformismo.

- Cos'è lo Stato e perché esiste?

- In che misura lo Stato è indipendente dalle classi sociali?

- Cosa intende Engels quando afferma che «la ricchezza esercita il suo potere indirettamente, ma in maniera tanto più sicura» in una repubblica democratica?

- Quale posizione dovrebbero assumere i marxisti sul suffragio universale?

- Cosa intende Engels con: «Lo Stato non viene “abolito”. Esso si estingue»?

- Qual è la differenza tra uno Stato borghese e uno Stato operaio?

Capitolo 2: L’esperienza del 1848-1852 In questo capitolo Lenin esamina più da vicino l'evoluzione del pensiero di Marx sulla questione dello Stato dopo gli eventi della Rivoluzione francese del 1848 e la presa del potere da parte di Luigi Bonaparte nel dicembre 1851.

Con buona pace degli opportunisti Marx, come risulta dalla lettura dei suoi scritti pre-rivoluzionari e del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, ha sempre difeso coerentemente la necessità di una dittatura del proletariato in opposizione ad un idealistico sviluppo pacifico e lineare della democrazia. L’idea che lo Stato potesse elevarsi al di sopra delle classi e che una minoranza privilegiata potesse sottomettersi umilmente al volere della maggioranza è sempre stata descritta da Marx come un’utopia piccolo-borghese.

Se, come spiegava Marx, tutte le rivoluzioni precedenti hanno ulteriormente raffinato l'apparato statale della borghesia, perfezionandone e ampliandone a dismisura l’apparato militare e burocratico, una rivoluzione proletaria non può limitarsi ad ereditare lo macchina statale esistente ma deve distruggerla e sostituirla con il «proletariato stesso organizzato come classe dominante». In quale forma e in che modo ciò debba avvenire costituisce l'argomento del prossimo capitolo.

È opportuno sottolineare quanto poco la dittatura del proletariato abbia in comune con il dispotismo sanguinario che ha soffocato la Rivoluzione russa con il governo di Stalin e dei suoi successori. Se oggi associamo il termine “dittatura” alla storia di regimi polizieschi e autoritari, nella concezione marxista esso non indica altro che una forma di governo in cui una parte della popolazione esercita una forma di dominio sull’altra. In questo senso la dittatura del proletariato, per Marx e Lenin, è il governo della maggioranza della popolazione sfruttata sulla minoranza sfruttatrice, una fase di transizione necessaria verso una società senza classi e senza Stato.

- Che cos'è la dittatura del proletariato? Qual è il suo scopo?

- Perché il rovesciamento del dominio della borghesia può essere compiuto solo dal proletariato?

- Perché il proletariato ha bisogno di uno Stato?

- Perché la Rivoluzione russa doveva «concentrare tutte le forze di distruzione» contro lo Stato borghese creato nel febbraio 1917?

- Qual è la differenza tra il semplice riconoscere la realtà della lotta di classe e una posizione autenticamente marxista?

Capitolo 3: L’esperienza della Comune di Parigi (1871). L’analisi di Marx In questo capitolo Lenin esplora il modo in cui Marx tratta l’esperienza storica della Comune di Parigi, quando per la prima volta la classe operaia si è organizzata come classe dominante, anche se solo per un breve periodo.

Avendo stabilito a livello teorico che i lavoratori non possono «impossessarsi semplicemente di una macchina statale già pronta e metterla in moto per i propri scopi» e devono invece «distruggere» l'apparato burocratico preesistente, si presentava a Marx (e ad i futuri marxisti) la necessità di spiegare in termini più concreti con cosa dovesse essere sostituito questo apparato. La soluzione non poteva che discendere dalle lotte reali della classe operaia: fu la Comune di Parigi a fornire a Marx il primo esempio in assoluto di dittatura del proletariato nella storia.

Lenin espone le caratteristiche chiave di questo Stato operaio: la sostituzione del “popolo in armi” (milizie popolari) all'esercito permanente; l'elezione di tutti i funzionari statali, compresi quelli di polizia e della magistratura, con diritto di revoca; l’introduzione di “salari operai” per tutti i funzionari statali; e l'abolizione del parlamentarismo a favore dell'istituzione di consigli dei lavoratori, che eleggano i delegati a un'assemblea nazionale, con funzioni sia legislative che esecutive (non «mulini di parole», ma «organismi che lavorino realmente»). È questo un modello di democrazia operaia valido ancora oggi.

- Che posizione ha assunto Marx sulla Comune di Parigi? In che modo questa dovrebbe influenzare l'approccio che adottiamo verso le altre rivoluzioni nella storia?

- Qual è per Lenin il significato del riferimento di Marx alla «rivoluzione popolare»? Perché era importante per definire i compiti della Rivoluzione russa?

- Perché la Comune di Parigi fallì?

- Perché Lenin dice che «il passaggio dal capitalismo al socialismo è impossibile senza un certo “ritorno” al democratismo “primitivo”»?

- Qual è la differenza tra parlamentarismo e democrazia operaia? - Perché l'abolizione immediata di tutta la burocrazia è «fuori discussione»?

Capitolo 4: Spiegazioni complementari di Engels Nel capitolo 4 Lenin continua a delineare un’analisi marxista dello Stato, ricorrendo ad ampie citazioni di Engels. Comincia facendo una chiara distinzione tra la posizione marxista e l'idea anarchica, che non prevede l'estinzione dello Stato ma la sua abolizione dall'oggi al domani. Il proletariato deve usare lo Stato come mezzo temporaneo per superare l'inevitabile resistenza della borghesia. Gli anarchici negano alla classe operaia questo mezzo importante per difendere la rivoluzione.

La Comune e tutti gli Stati operai autentici differiscono dagli Stati precedenti. Certo, si tratta ancora di organi statali, e quindi repressivi, ma per la prima volta è la maggioranza ad avere la possibilità di esercitare mezzi coercitivi o repressivi nei confronti di una minoranza. Lo Stato, così, invece di ergersi al di sopra della società arriva a rappresentare effettivamente la maggioranza della popolazione.

Lenin prosegue spiegando perché i marxisti non sono neutrali sulla questione di quale forma debbano assumere gli Stati borghesi. Una repubblica democratica è sempre preferibile ad una monarchia dispotica. Lenin spiega inoltre che in generale una repubblica organizzata in modo centralizzato sarebbe preferibile ad una con un sistema federale, ma questo ragionamento non può essere posto al di sopra del problema delle minoranze nazionali oppresse.

Per quanto riguarda il funzionamento della macchina statale, esso non può essere delegato a funzionari privilegiati. Occorre invece garantire che ogni individuo contribuisca all'amministrazione dello Stato. Ciò è vitale per garantire la progressiva estinzione dello Stato.

- Perché lo Stato non può essere abolito «nel giro di ventiquattr'ore»?

- Perché non è necessario abolire certe funzioni e istituzioni dello Stato?

- Perché una repubblica democratica è la migliore preparazione alla dittatura del proletariato?

- Perché gli Stati centralizzati sono preferibili ai sistemi federali nella maggior parte degli scenari? Che relazione ha tutto ciò con la questione nazionale?

- In che modo lo Stato, nelle parole di Engels, trasforma i «servitori della società» nei «padroni della società»?

- Cosa intende Lenin quando dice che «l’estinzione dello Stato è l’estinzione della democrazia»?

Capitolo 5: Le basi economiche dell’estinzione dello Stato In questo capitolo Lenin affronta la transizione dal capitalismo al comunismo. Una fase che comporterà invariabilmente un periodo transitorio in cui la dittatura del proletariato, una volta stabilita, inizierà ad estinguersi.

Una rivoluzione socialista implica l’attuazione di una nuova forma più avanzata di democrazia. Molti dei paesi capitalisti occidentali sono considerati democrazie, ma si tratta di un’etichetta per molti versi vuota. La maggioranza della popolazione non ha i mezzi per partecipare effettivamente alla vita politica al di là del voto ogni tot anni, mentre i capitalisti possono usare ricchezza e potere per influenzare lo Stato in modi che per un lavoratore sarebbero impensabili.

La necessità di uno Stato svanirebbe con la scomparsa delle condizioni che ne garantiscono l’esistenza. Invece di essere costrette a seguire le leggi, le persone si abituerebbero «a osservare le condizioni elementari della convivenza sociale senza violenza e senza sottomissione».

Lenin fa riferimento alla Critica del programma di Gotha di Marx, in cui viene tracciata una distinzione tra la fase inferiore della società comunista (a volte indicata come socialismo) e una fase superiore, il comunismo vero e proprio. Lo stadio inferiore del comunismo ha ancora l'impronta della vecchia società capitalista: lo sfruttamento è stato abolito, ma non c'è ancora piena uguaglianza dal momento che la ricchezza è ancora distribuita in base al lavoro svolto da ciascuno.

Una volta che i capitalisti saranno stati espropriati, sarà possibile dar vita ad un massiccio sviluppo delle forze produttive, e su questa base sarà possibile realizzare lo stadio più elevato della società comunista. Solo in questa fase più alta si metterà in pratica la regola «da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni».

- In che modo i capitalisti hanno più influenza politica dei lavoratori?

- In che modo la democrazia socialista sarebbe diversa dalla democrazia capitalista?

- Perché l'assenza di classi comporterebbe un'estinzione dello Stato?

- Perché, in una società socialista, un lavoratore non riceverebbe «l'intero prodotto del suo lavoro», come dice Lassalle?

- Cosa intende Lenin per «diritto borghese» e perché sarebbe ancora presente nella fase inferiore del comunismo?

6. La degradazione del marxismo negli opportunisti Nel capitolo finale Lenin cerca di difendere le tradizioni rivoluzionarie del marxismo contro chi vi si oppone da un punto di vista riformista. Lenin ribadisce che il proletariato non può né prendere il controllo dello Stato borghese né rifiutarsi di usare il potere statale: ha bisogno di un proprio Stato.

Contro Kautsky, Lenin sostiene che il compito di una rivoluzione proletaria consiste nello smantellare le burocrazie dello Stato borghese, sostituendo tutti i funzionari con lavoratori eletti e revocabili che ricevano il salario medio di un operaio. L’obiettivo è arrivare ad una nuova organizzazione statale in cui l'amministrazione del potere ricada su una collettività sempre più estesa. Per fare in modo, cioè, che «tutti diventino temporaneamente dei “burocrati”, e quindi nessuno possa diventare un “burocrate”».

Kautsky distorce in senso parlamentarista la posizione di Marx sullo Stato. Per Marx la conquista del potere statale da parte del proletariato non comporta semplicemente l’amministrazione, sulla base di una maggioranza parlamentare, dello Stato borghese. Deve mutare il carattere di classe dello Stato: il proletariato deve organizzarsi come classe dominante al posto della borghesia. A questo si può arrivare solo con una rivoluzione.

Lenin spiega che sotto il capitalismo la società non può funzionare senza una burocrazia poiché la partecipazione attiva alla vita politica è fortemente limitata per la classe lavoratrice. Una burocrazia fedele è uno degli strumenti attraverso cui i capitalisti mantengono il controllo sullo Stato. Una giornata lavorativa ridotta consentirebbe ai lavoratori di impegnarsi nell'attività politica e nella gestione dello Stato, privando così il padronato di una burocrazia che possa controllare.

Lo scoppio della Rivoluzione d'Ottobre impedì a Lenin di concludere il libro. Nel poscritto scrive: «È più piacevole e più utile fare “l'esperienza di una rivoluzione” che non scrivere su di essa».

- In che modo Bernstein ha distorto la frase di Marx: «La classe operaia non può impossessarsi puramente e semplicemente di una macchina statale già pronta e metterla in moto per i propri fini»?

- Perché è necessario garantire che il compito dell'amministrazione sia condiviso da tutti i lavoratori?

- Cosa intende Lenin quando caratterizza la posizione di Kautsky come una posizione «di centro»? Che cos’è il centrismo per i marxisti?

- Quali sono, secondo Lenin, le tre principali differenze tra marxismo e anarchismo?

- Perché c'è il rischio che i funzionari proletari vengano "burocratizzati" sotto il capitalismo?

- Perché è fondamentale che gli amministratori siano eletti e revocabili?

GUIDA ALLA LETTURA DE L’ORIGINE DELLA FAMIGLIA

Proponiamo di seguito una guida per la lettura de L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, per aiutare ad comprendere le idee fondamentali di questo classico del marxismo di Friedrich Engels. Il libro è reperibile qui.

Dopo la morte di Karl Marx nel 1883, il suo intimo amico e collaboratore, Friedrich Engels, assunse il colossale compito di preparare quelli che sarebbero diventati i volumi 2 e 3 del Capitale, utilizzando i manoscritti di Marx. Nel corso di questo lavoro scoprì le note di Marx sul libro La società antica dell'antropologo americano Lewis Henry Morgan. Sulla base di queste note, del lavoro di Morgan e di ulteriori approfondite ricerche, Engels avrebbe prodotto L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato: un vero capolavoro del materialismo storico e una delle più grandi opere della teoria marxista mai prodotte.

Nel testo, Engels risponde a molti degli studi antropologici più innovativi dell'epoca e prosegue spiegando le basi materiali dell'oppressione delle donne e dello Stato, dimostrando che non si tratta di fenomeni senza tempo, eterni, ma piuttosto di prodotti della storia, sorti assieme al sorgere della proprietà privata e quindi della società divisa in classi – e che assieme a questo tipo di società cesseranno di esistere. Come dice Engels: “La società che riorganizza la produzione sulla base della libera ed eguale associazione dei produttori metterà l'intera macchina statale nel posto le si addice – nel museo delle antichità, accanto al filatoio e all'ascia di bronzo."

Le conclusioni rivoluzionarie di Engels hanno continuato a ispirare ed educare generazioni di marxisti. Lenin, che aveva basato gran parte del suo Stato e rivoluzione sul testo di Engels, lo descrisse come "una delle opere fondamentali del socialismo moderno". A quasi 140 anni da quando è stato scritto, continua ad essere una lettura essenziale per chiunque voglia sia capire che cambiare il mondo.

Prefazione e capitolo 1: Stadi preistorici della civiltà

Nella prefazione, Engels espone una sintetica spiegazione della concezione materialista della storia, passando poi a discutere l'evoluzione del pensiero sulla storia della famiglia, soffermandosi su studiosi come Bachofen, Mclennan e infine L.H. Morgan, la cui opera, La società antica (insieme alle note di Marx sul testo) formò l'ispirazione per il lavoro di Engels. Nel capitolo 1, Engels riassume le conclusioni sull'antropologia a cui era giunto Morgan, che divide lo sviluppo sociale umano in tre stadi: selvaggio, barbarie e civilizzazione. Questi sono a loto volta divisi in fase superiore, media e inferiore.

I termini “stadio selvaggio” e “barbarie” non sono più usati nell'antropologia moderna; tuttavia gli studiosi moderni continuano a seguire lo stesso schema di base. La prima epoca descritta da Morgan, lo stadio selvaggio, si basa su un'economia di caccia e raccolta del cibo. Essa ha costituito circa il 98% dell'esistenza umana sul pianeta e copre per intero ciò che gli archeologi chiamano il Paleolitico o l'età della pietra antica, e i geologi classificano come Pleistocene.

Il“paleolitico”(stadio selvaggio), è diviso in fase inferiore, media e superiore. Lo stadio inferiore si riferisce alla data dei primi utensili in pietra conosciuti (circa 3,3 milioni di anni fa) e coincide con le origini dei primi ominidi (i nostri diretti antenati evolutivi). Si estende fino a 300.000 anni fa, quando emersero per la prima volta gli umani fisiologicamente moderni (homo sapiens). La fase intermedia segna l'infanzia della nostra specie, quando abbiamo sviluppato strumenti di pietra come l’ ascia (segnando un salto cognitivo molto importante). Lo stadio superiore inizia circa 100.000 anni fa con l’entrata inscena dei nostri diretti avi biologici (Homo Sapiens Sapiens o di Cromagnon) e termina 12.000 anni fa.

Parti dello stadio inferiore della barbarie che Engels descrive sono ora raggruppate nel paleolitico superiore (o mesolitico) e le società che hanno questo carattere sono talvolta chiamate cacciatori-raccoglitori "transegalitari". Engels sostiene che, sebbene fosse emersa una divisione del lavoro tra i sessi, non era certo basata sul dominio o sullo sfruttamento, ma sul rispetto e sulla cooperazione reciproci. In realtà le moderne scoperte archeologiche sembrano ridimensionare fortemente la portata e la rigidità anche di questa divisone “naturale” del lavoro.

Tra 10.000 e 12.000 anni fa, alcune società intorno alla “Mezzaluna Fertile”, dove il clima e le risorse erano favorevoli, aumentarono il loro approvvigionamento alimentare attraverso la coltivazione delle piante e l'allevamento di animali, aprendo una nuova fase di sviluppo sociale. Questo ha comportato la nascita dell'agricoltura, l'addomesticamento degli animali e l'emergere di comunità di villaggio stabili. Questa nuova economia di produzione alimentare è stata identificata da Morgan come lo stadio della barbarie, ed è presentata dagli archeologi come Neolitico. Con l'emergere dell'agricoltura, la vita nomade di caccia e raccolta, che aveva dominato l'esistenza per più di due milioni di anni, andò rapidamente in declino. Sebbene queste siano generalizzazioni e debbano essere qualificate, sono classificazioni importanti che ci permettono di comprendere l'evoluzione della società.

Engels segna l'inizio dello stadio superiore della barbarie con la fusione del ferro e colloca i greci al tempo di Omero in questa fase di sviluppo. Successive scoperte hanno collocato l'inizio di questa fase ancora più indietro nel tempo, al “calcolitico” (età del rame), in un certo numero di luoghi in tutto il mondo. Infatti gli Achei descritti posteriormente da Omero erano parte di una civiltà basata sul bronzo.

Fondamentalmente ciò che unisce tutte le società in questa fase di sviluppo è la presenza della lavorazione dei metalli (tra cui i vomeri di bronzo o ferro, con la conseguente espansione dell’agricoltura e la creazione di un surplus alimentare che consente la divisione del lavoro) e la crescente urbanizzazione, insieme a stratificazioni e disuguaglianze sempre più marcate, come risultato della divisione del lavoro e della proprietà privata che ne è conseguenza.

In breve, queste sono società “che si preparano a fare il prossimo passo”, quello verso la civiltà. La tappa successiva tracciata da Morgan fu appunto quella della civilizzazione, nata nelle valli del Nilo, del Tigri-Eufrate e dell'Indo, con lo sviluppo delle eccedenze alimentari, arrivate al livello di essere utilizzate per sostenere la crescente vita urbana. I primi duemila anni di civiltà coincidono con quella che gli archeologi chiamano l'età del bronzo. Essa rappresenta la base economica di quello che Marx chiamava il modo di produzione asiatico (in Egitto, Cina e Mesopotamia), così come della schiavitù (in Grecia e a Roma), e annuncia l'emergere della società di classe. Fu una trasformazione rivoluzionaria, in quanto liberò una piccola parte privilegiata della popolazione dagli oneri del lavoro, concedendole il tempo per sviluppare appieno la cultura, la scienza e l'arte.

Quali aspetti de La società antica Engels apprezza? Perché il lavoro di Morgan è stato una tale fonte di ispirazione per lui?

Qual è , secondo la concezione materialistica, il fattore determinante nella storia, in ultima analisi? Perché è così?

Questo “ fattore determinante” ha un duplice carattere, quali sono i due aspetti chiave?

Nel capitalismo, dove il lavoro umano è altamente sviluppato, sono i rapporti di proprietà che dominano la società. Quando la tecnologia è a un livello di sviluppo inferiore, come nelle bande nomadi di cacciatori-raccoglitori, cosa domina invece la società umana?

Quali sono le tre principali "epoche" della società umana? Quali sono le loro caratteristiche?

Qui Engels spiega molte delle idee formulate da Morgan sull'evoluzione della parentela umana. Descrive lo sviluppo della famiglia attraverso quattro fasi principali e seguenti ad una fase iniziale di promiscuità sessuale: la famiglia Consanguinea, la famiglia Punalua, la famiglia di coppia e, infine, la famiglia Monogama. I primi tre sono visti come sviluppi evolutivi di uno stadio definito come “matrimonio di gruppo”, caratterizzato da forme di selezione naturale che hanno vietato l'incesto con regole progressivamente più strette, risultando in una specie più intelligente e sana grazie al più facile decadere dei geni recessivi. Solo l'ultimo stadio, la monogamia, fu uno sviluppo economico, stimolato dallo sviluppo della proprietà privata. È con l'emergere della monogamia, sostiene Engels, che emerge il patriarcato.

Descrivi le caratteristiche chiave delle quattro fasi della famiglia. In che modo ogni forma di matrimonio ha posto le basi per la successiva? Quali sono stati i principali progressi compiuti da ogni sviluppo della famiglia?

Fino allo sviluppo della famiglia monogama, le donne continuano ad essere tenute in grande considerazione. Perché anche nella famiglia basata sul matrimonio di gruppo (tra cui ancora la famiglia di coppia) le donne conservano ancora un alto livello di rispetto e autorità nelle comunità primitive?

Perché , secondo Engels, il diritto materno precede la discendenza patrilineare?

Perché Engels dice che, con l'emergere del matrimonio di coppia, la selezione naturale aveva completato il suo compito?

Nelle prime fasi della barbarie, la schiavitù era di scarsa utilità . Infatti, i prigionieri di guerra venivano uccisi o adottati nella tribù . Perché ?

Spiega l'impatto dell'emergere della proprietà privata e dei rapporti di successione patrimoniale: 1) Tra uomini, donne e Gens; 2) Tra uomini e donne all'interno della famiglia.

Perché Marx ed Engels consideravano un fattore progressivo il passaggio alla famiglia monogama, sebbene in essa le donne fossero essenzialmente schiavizzate?

In questo capitolo, Engels discute un esempio di sviluppo della famiglia e di una forma di organizzazione sociale senza Stato. Per prima cosa parla degli Irochesi, la cui struttura familiare e le cui istituzioni sociali erano state attentamente analizzate da Morgan. Nel descrivere la gens irochese, Engels dimostra che è possibile per gli esseri umani vivere insieme su basi egualitarie, senza schiavitù né potere statale. Tuttavia, spiega anche che queste società egualitarie potevano rimanere tali per lunghi periodi finché il livello di sviluppo economico era relativamente basso. Dal momento che lo sviluppo delle forze produttive, con la nascita dell'agricoltura, aveva dato luogo a un surplus maggiore che poneva le condizioni per la divisione del lavoro e la proprietà privata, "il potere di questa comunità primitiva [egualitaria] doveva essere spezzato, ed è stato spezzato".

Cos'è una gens? Come si relazionano tra loro, gentes, fratrie, tribù, federazioni?

Perché inizialmente nessun membro poteva sposarsi all'interno della gens?

In che modo i membri della gens risolvevano le controversie o facevano la guerra senza uno Stato? Qual era la base di questa relativa uguaglianza sociale all'interno della gens?

Perché l'organizzazione gentilizia era “ condannata” , secondo Engels?

Capitoli 4 e 5: La Gens greca e lo Stato ateniese.

Questi capitoli tracciano lo sviluppo della società gentilizia in società di classe e lo sviluppo dello Stato ad Atene. È qui che Engels aggiunge importanti contributi alle idee di Morgan spiegando l'emergere della civiltà dalla barbarie attraverso potenti forze economiche e non come il semplice prodotto dell’azione di grandi individui o dell’influsso di nuove idee culturali. Spiega che le origini dello Stato ateniese possono, in effetti, essere ricondotte alla forte instabilità sociale causata dallo sviluppo del denaro, che penetrò “come un acido corrosivo” nella vita delle comunità rurali. I contadini per continuare a coltivare la terra, dovevano pagare affitti esorbitanti. Coloro che non potevano pagare furono costretti a vendere se stessi e i propri figli come schiavi per pagare i propri debiti. Ciò aprì un periodo di instabilità sociale così forte che dimostrò concretamente la necessità per le classi possidenti di una forza armata che potesse difendere la propria proprietà dalle classi oppresse e dagli stessi conflitti interni alle classi dominanti.

Quali pensi che siano le caratteristiche fondamentali comuni a tutte le costituzioni tribali in esame? Quali sono alcune differenze chiave tra le costituzioni irochese, greca e romana?

Fino a che punto è corretto parlare di monarchi nel periodo della società gentilizia?

Come è emersa la proprietà privata nella società ateniese?

Perché la costituzione gentilizia era “assolutamente inconciliabile con l'economia monetaria”?

Che effetto ebbe sulla società ateniese l'introduzione del denaro e dell'usura?

Che cos'è lo Stato, e come lo si dimostra concretamente in questi capitoli?

Capitolo 6: La Gens e lo Stato a Roma.

Questo capitolo affronta la formazione dello Stato romano parallelamente alla disgregazione dell’originaria costituzione gentilizia di Roma. Engels descrive la gens romana come generalmente simile alla gens greca: esogama, con capi eletti, organizzati in fratrie dette curiae. La costituzione fondamentalmente egalitaria della gens entrava in contraddizione con l'aumento del commercio e della ricchezza della società romana, in particolare la produzione di un surplus produttivo implicava che non tutti dovessero lavorare la terra, dando un forte impulso allo sviluppo della divisione del lavoro e della proprietà privata (che per Engels sono termini equivalenti).

Il senato era composto dai membri eletti della gens. Nella nuova società romana, questo gruppo aveva una posizione di vantaggio nella distribuzione, nel controllo e nell’appropriazione privata dell’aeger pubblicum (terre collettivamente possedute dalla gens) e divenne, in base a ciò, il "patriziato", cioè l'inizio della nobiltà ereditaria.

Inoltre la conquista territoriale romana portò ad incorporare persone che non erano membri di alcuna gens e che divennero noti come plebei, che godevano di diritti economici, ma non di quelli politici. Di fronte a questa situazione, la vecchia costituzione gentilizia non poteva reggere. Dalla lotta tra la plebe e il vecchio ordine sorse un nuovo asseto istituzionale basato sulla ricchezza. Si formò così una nuova assemblea, composta da “classi”, che erano divise in base alla proprietà. In effetti questo era ormai uno Stato in tutto e per tutto e da lì in poi tutta la storia di Roma, con la sostituzione dei contadini con gli schiavi, poté fare il suo corso.

Perché Engels sottolinea che, nelle leggi originarie della gens romana, le donne si sposavano al di fuori della gens?

Perché i romani inizialmente eleggevano un senato, e cosa impediva a questo di essere uno Stato pienamente formato?

Quali furono le contraddizioni nella società romana che alla fine portarono alla completa caduta della costituzione gentilizia?

Come si confronta questo con l'ascesa dello Stato ateniese discusso nei capitoli precedenti? Quali sono le similitudini e quali le differenze?

Come si è costituito lo Stato romano come potere pubblico indipendente? Era davvero indipendente?

Capitoli 7 e 8: La Gens tra i Celti e i Germani - La formazione dello Stato tra i Germani.

In questo capitolo, Engels individua le prove dell'organizzazione gentilizia nelle tribù scozzesi, irlandesi e tedesche e poi spiega come la costituzione gentilizia germanica descritta da Tacito nel I secolo a.c. si sarebbe poi trasformata nei primi Stati feudali, sorti dalla conquista della decadente Europa romana.

Verso la fine del IV secolo, l'Impero Romano stava diventando sempre più debole. Ci fu un impoverimento generale, il declino del commercio, dell'artigianato e dell'arte, una diminuzione della popolazione, il decadimento delle città e la ricaduta dell'agricoltura a un livello inferiore. Con il declino della schiavitù, ai contadini (spesso ex-schiavi) chiamati coloni venivano date piccole porzioni di terra, per le quali pagavano un affitto annuale. Erano legati a queste terre e potevano essere venduti insieme ad esse. Non erano schiavi ma nemmeno liberi, erano i precursori dei servi della gleba.

Quando i germani conquistarono l’Impero romano, si impadronirono della maggior parte del territorio. Con il passare del tempo si assistette all'indebolimento del legame di sangue nella gens, con l'integrazione di un numero crescente di romani in queste società germaniche. Ma ora i germani dovevano organizzare ciò che avevano conquistato. Qualcosa doveva essere messo in campo per sostituire lo Stato romano, e il sostituto era un altro Stato. Poiché il rappresentante diretto del popolo conquistatore era il loro capo militare, ciò portò alla trasformazione della leadership militare in monarchia. Il governo dei territori veniva delegato a quelli che originariamente erano stati i capi delle varie fratrie. Questa delega di governo si trasformò per consuetudine in proprietà privata ereditaria.

Quali erano le somiglianze e le differenze tra la gens germanica e quelle irochesi, greche e romane?

Perché Engels sottolinea il relativo rispetto per le donne all'interno della gens germanica?

Quali effetti ha avuto su questa organizzazione il contatto con i romani?

È ancora corretto descrivere la gens germanica come tribale, o gentile, anche se molte società germaniche avevano principi (o capi) e ricchezze ereditarie?

Perché il dominio sui popoli sottomessi era incompatibile con la costituzione gentilizia?

In che modo la leadership militare si è trasformata in monarchia?

In che modo questo periodo pose le basi per il feudalesimo?

Perché Engels considerava la servitù della gleba come « una forma di servitù che sta così al di sopra della schiavitù»?

Perché "solo i barbari sono in grado di ringiovanire un mondo in preda a una civiltà al collasso"?

In questo capitolo finale Engels riassume il contenuto dell'intero testo, portando ora in primo piano una teoria generale dell'evoluzione della parentela, dell'emergere della proprietà privata (cioè della società di classe) e dello Stato. Tuttavia, questo non è un mero riassunto dei capitoli precedenti. Engels qui delinea esplicitamente perché certe condizioni sono necessarie per lo sviluppo e il declino della famiglia monogama (borghese), per l'oppressione delle donne, la società di classe e lo Stato. Questo capitolo e in effetti l'intero testo sono una netta confutazione dell'idea anti-materialista e anti-scientifica per cui la società umana non è soggetta a leggi generali materiali, come il resto della natura. Questo capitolo è citato estesamente anche da Lenin in Stato e rivoluzione perché pone essenzialmente le basi per l'approccio marxista allo Stato.

Quali sono le caratteristiche chiave della costituzione gentilizia? Qual è la sua base economica?

Qual è stato l'impatto dell'agricoltura sulla famiglia e sulla società più in generale?

Come e perché emerge il denaro?

Che cos'è lo Stato? Come è nato? Che ruolo gioca nella società? Qual è il ruolo della lotta di classe nella storia?

Che cosa intende Engels quando scrive: “ Il caso è solo l'unico polo di una relazione il cui altro polo si chiama 'necessità '” ? In che modo questo ci aiuta a comprendere la storia e la società di oggi?

GUIDA ALLA LETTURA DE L’ESTREMISMO, MALATTIA INFANTILE DEL COMUNISMO

Proponiamo di seguito una guida alla lettura del libro di Lenin conosciuto in Italia come L’estremismo, malattia infantile del comunismo. Fu Palmiro Togliatti, il leader del PCI, a tradurre il titolo in questo modo. Nel titolo originale (con cui il libro è noto nel resto del mondo) il termine utilizzato non è “estremismo”, ma “comunismo di sinistra”. Ciò detto, il libro è un classico della teoria marxista e uno dei contributi più importanti di Lenin al movimento comunista internazionale della sua epoca. I preziosi insegnamenti in esso contenuti sono ancora oggi attuali. Il libro è reperibile nella nostra libreria marxista.

Scritto nel 1920, nel bel mezzo della guerra civile russa, con i bolscevichi al potere, L’estremismo fu concepito da Lenin come un appello teorico ai comunisti di tutto il mondo affinché affrontassero i passi corretti e necessari per conquistare e mantenere il potere, nella convinzione incrollabile che da questo dipendesse la sopravvivenza della rivoluzione russa.

Non solo Lenin aveva un’incontestabile predisposizione per la teoria, ma avendo egli stesso guidato la classe operaia russa al potere, aveva un’esperienza unica da cui trarre le lezioni enunciate in quest'opera.

In una situazione di lotta per la vita o la morte, di guerra civile e barbarie, Lenin vedeva la necessità di respingere le testardaggini dottrinarie e le tattiche rigide dei cosiddetti “comunisti di sinistra”. Chiedeva invece che alla fermezza teorica fossero unite tattiche flessibili per affrontare la brutale realtà che lui e il popolo russo dovevano affrontare.

Capitolo 1: In che senso si può parlare del significato internazionale della rivoluzione russa?

Nel primo capitolo Lenin richiama l'attenzione sull'influenza della la rivoluzione proletaria dell'ottobre 1917 in Russia sul proletariato mondiale. Afferma che la presa del potere da parte della classe operaia per la prima volta nella storia ha rivelato ai lavoratori del mondo il futuro della loro lotta e l'importanza del bolscevismo per raggiungerla.

Cita un'acuta previsione fatta nel 1902 da Karl Kautsky, un leader storico della socialdemocrazia tedesca, che nell'ora decisiva si rivelò essere fondamentalmente un menscevico. Kautsky aveva riconosciuto la Russia come un centro di sviluppo del marxismo e "una fonte di energia rivoluzionaria", e aveva previsto che una rivoluzione in Russia avrebbe potuto mostrare all’Europa occidentale la strada verso il progresso.  

Come fa in tutto il libro, Lenin qui difende puntualmente i bolscevichi dai loro critici, analizzandone l'ipocrisia e le contraddizioni.

Capitolo 2: Una delle condizioni fondamentali per la vittoria dei bolscevichi

Il secondo capitolo chiarisce perché è necessaria un'organizzazione bolscevica e ricostruisce come questa si è sviluppata in Russia. Viene spiegato come un’organizzazione centralizzata e la teoria bolscevica sono fondamentali per stabilire la dittatura del proletariato. Lenin espone in modo conciso e chiaro che in una tale "lotta per la vita o la morte", senza queste condizioni una rivoluzione proletaria non può consolidarsi contro la reazione capitalista.

Capitolo 3: Le fasi principali della storia del bolscevismo

Il capitolo 3 è una breve panoramica delle varie fasi degli sviluppi politici in Russia che portarono alla Rivoluzione d'Ottobre del 1917. Lenin analizza brevemente come fu il contesto creato da questi eventi a permettere ai bolscevichi di guidare il proletariato a rovesciare il capitalismo.

Capitolo 4: Lottando contro quali nemici in seno al movimento operaio è sorto, si è rafforzato e temprato il bolscevismo?

In questo capitolo, avendo già argomentato la necessità della dittatura del proletariato, Lenin inizia la sua polemica contro le varie tendenze del "comunismo di sinistra" che rendono impossibile raggiungere questo obiettivo.

Il capitolo 4 si concentra in particolare sull'importanza di combinare "forme di lotta legali e illegali, parlamentari e non parlamentari" e sull'importanza di essere flessibili nelle tattiche. Lenin rifiuta la posizione degli anarchici e dei cosiddetti “comunisti di sinistra" che, sulla base dei loro “principi” astratti, si rifiutano ostinatamente di adattare le loro tattiche alla realtà concreta.

Lenin scrive apertamente che certe volte le scissioni e le espulsioni sono necessarie per i partiti operai, perché ne rafforzano il livello teorico e ne mantengono l’efficacia come strumenti di lotta.

Capitolo 5: Il comunismo di "sinistra" in Germania. I capi, il partito, la classe, le masse.

Lenin critica l'agitazione confusa del Partito comunista tedesco per "la dittatura del partito comunista" in contrapposizione alla "dittatura della classe proletaria". Sostiene che la lotta politica può essere e sarà sempre solo una generalizzazione della lotta di classe nella sua interezza e che la formazione dei partiti è l'espressione di una necessità storica. L'attenzione deve essere posta sulla natura di classe del partito e sulla correttezza della sua teoria.

L'ultima parte del capitolo descrive la grandezza dei compiti che inevitabilmente le rivoluzioni devono affrontare e come un partito sia necessario per mantenere il controllo dei lavoratori sull’economia e sul governo, contro la borghesia sia interna che internazionale.

Lenin spiega che la Russia rivoluzionaria è solo in una fase di transizione dal capitalismo al socialismo (che a sua volta non è che una fase inferiore rispetto al comunismo), in cui la borghesia e le sue tendenze non si sono ancora dissolte in un contesto economico e culturale più avanzato.

Capitolo 6: Devono i rivoluzionari lavorare nei sindacati reazionari?

Lenin mette in evidenza che i lavoratori russi, che sono passati attraverso lunghi periodi di lotte e hanno svolto un ruolo fondamentale nella costituzione delle loro organizzazioni di massa, sono ben consapevoli della necessità di una direzione forte e decisa, a differenza della “opposizione di principio” tedesca e dei “comunisti di sinistra". Lenin si oppone alla tendenza estremista ad isolarsi dalle masse in base ad “infantili slogan di sinistra" e a rifiutare il lavoro nelle organizzazioni di massa come i sindacati.

Capitolo 7: Partecipare ai parlamenti borghesi?

Lenin ancora una volta distrugge gli argomenti della “sinistra” tedesca e olandese, che si oppongono alla partecipazione ai parlamenti borghesi. Sottolinea che molte delle posizioni estremiste si basano su affermazioni errate, come quella dei comunisti tedeschi secondo cui “le forme di lotta del parlamentarismo” sarebbero “storicamente e politicamente superate”.  Lenin smentisce tali false affermazioni e prosegue spiegando perché la partecipazione ai parlamenti borghesi può essere del tutto necessaria, a seconda delle circostanze concrete.

Lenin sostiene anche che, nel loro rifiuto astratto di ogni partecipazione ai parlamenti, i “comunisti di sinistra” non hanno imparato nulla dall'esperienza dei loro compagni russi, il che vanifica il senso stesso dell’esistenza di un’Internazionale comunista, che dovrebbe servire proprio a generalizzare le esperienze più avanzate dei diversi paesi.

In questo capitolo, Lenin invita i suoi interlocutori a riconoscere quanto sia fragile la rivoluzione proletaria rispetto alla controrivoluzione capitalista. Descrive quanto è vitale che la direzione del proletariato sia preparata a sfruttare tutte le debolezze del nemico di classe, la borghesia, che sarà a sua volta pronta a fare tutto il necessario per distruggere la forza organizzata del suo nemico di classe: il proletariato. È da questo punto di vista che Lenin sostiene che i compromessi dovrebbero essere valutati caso per caso, a beneficio della lotta di classe nel suo insieme.

“La nostra teoria non è un dogma, ma una guida all'azione.”

Lenin spiega che i comunisti tedeschi, che si oppongono a qualsiasi coalizione con i socialdemocratici indipendenti (una scissione di sinistra della socialdemocrazia tedesca), commettono un errore, poiché tali "compromessi" sono passi necessari per l'innalzamento della coscienza di classe dei proletari e dei semi-proletari, partendo dal loro livello politico e dai loro pregiudizi.

Capitolo 9: Il comunismo di "sinistra" in Inghilterra

In questo capitolo Lenin analizza un articolo di Sylvia Pankhurst, esponente della Workers Socialist Federation in Gran Bretagna. Pankhurst e il suo partito politico si oppongono all'affiliazione al partito laburista e a qualsiasi partecipazione al parlamentarismo, perché “il partito comunista non deve stipulare compromessi… Esso deve mantenere pura la sua dottrina…”, nonostante riconoscano che il partito laburista ha il sostegno della stragrande maggioranza dei lavoratori.

Lenin loda lo spirito rivoluzionario della Pankhurst, ma assume una posizione tattica opposta: poiché i leader riformisti del partito laburista hanno un sostegno così significativo, i comunisti devono lavorare all'interno del partito laburista, per accrescere la coscienza di classe dei lavoratori, che devono sperimentare in prima persona il fallimento della dirigenza riformista.

Secondo Lenin, i comunisti dovrebbero anche proporre una coalizione di tutti i partiti dei lavoratori, in particolare il partito laburista, per abbattere i liberali e i conservatori. Ciò dimostrerebbe che i comunisti non sono settari e promuoverebbe l'unità di tutti i lavoratori contro i partiti della borghesia. Questo è un primo passo essenziale per far avanzare la coscienza politica della classe operaia.

In quest’ultimo capitolo, così come nell’appendice non meno importante che segue, Lenin esamina più da vicino alcune lezioni chiavi da trarre dalla lotta in Russia, in Germania e in Italia. Riassume anche il significato della sua opera e l’importanza della lotta contro il dottrinarismo “di sinistra”.

GUIDA ALLA LETTURA DE IL PROGRAMMA DI TRANSIZIONE DI TROTSKIJ

Presentiamo una guida alla lettura del Il programma di transizione, un breve scritto di Trotskij che sintetizza efficacemente il metodo e l’approccio con cui i marxisti devono elaborare un programma di rivendicazioni in grado di creare un ponte tra le idee rivoluzionarie e il livello di coscienza delle masse. Il testo originale è reperibile qui.

Pubblicato originariamente nel Bollettino dell’Opposizione di sinistra nel 1938, L’agonia del capitalismo e i compiti della Quarta Internazionale (conosciuto come Il programma di transizione) venne approvato come piattaforma politica della Quarta Internazionale al suo congresso di fondazione nello stesso anno. Esso rimane, insieme con il Che fare? e L’estremismo, malattia infantile del comunismo di Lenin, uno dei più importanti testi di strategia rivoluzionaria mai scritti e costituisce per i rivoluzionari una lettura essenziale ancora oggi.

A seguito della Rivoluzione russa del 1917, il mondo assistette a un’ondata di movimenti rivoluzionari in tutta l’Europa e al di fuori di essa. Ispirati dalla vittoria dei lavoratori in Russia e dalla fondazione dell’Internazionale comunista, i lavoratori insorsero in Germania, Ungheria, Italia, Cina e Spagna; ogni nazione era in uno stato di fermento rivoluzionario. E tuttavia il periodo tumultuoso degli anni ‘20 e ‘30 portò, invece che alla dittatura del proletariato, all’ascesa del fascismo, alle purghe di Stalin e allo sprofondare del mondo in una guerra che provocò orrore e distruzione su una scala inedita. Fu in questo contesto tumultuoso che Trotskij prese a scrivere il suo programma per i marxisti nel mondo.

Il primo compito dei marxisti in questo periodo era di comprendere e spiegare le sconfitte subite, per impedire che i movimenti futuri ripetessero gli stessi errori. È questo il compito cui si dedica Trotskij nella prima parte del Programma di transizione, condensando tutti i momenti salienti e le dure lezioni di questo periodo nella frase di apertura: “La situazione politica è caratterizzata innanzitutto dalla crisi storica della direzione del proletariato.”

Ad agire come freno della rivoluzione mondiale non era l’assenza delle “premesse oggettive” della rivoluzione che, secondo Trotskij, “non solo sono mature, ma hanno addirittura cominciato a marcire”, bensì l’inadeguatezza della direzione della classe operaia. Il compito centrale della Quarta Internazionale era pertanto costruire questo fattore soggettivo e il resto del Programma di transizione è dedicato proprio alla questione di come raggiungere questo obiettivo, ai principi e alla tattica necessari a un’organizzazione marxista rivoluzionaria.

Prevedendo che la prossima guerra avrebbe inaugurato un nuovo periodo di sollevazioni rivoluzionarie, Trotskij sottolineava la necessità di superare “la contraddizione tra la maturità delle condizioni oggettive della rivoluzione e l’immaturità del proletariato e della sua avanguardia”, causata dallo sfinimento e dalla demoralizzazione della vecchia generazione e dall’inesperienza della nuova.

A tal fine, Trotskij poneva la necessità per i marxisti di “aiutare le masse a trovare, nel processo della loro lotta quotidiana, il ponte tra le rivendicazioni attuali e il programma della rivoluzione socialista”. Per raggiungere questo obiettivo, rivestivano un ruolo centrale quelle che definiva “rivendicazioni transitorie”, transitorie perché partono dalle istanze concrete e dal livello di coscienza delle masse e arrivano alla conquista del potere da parte della classe operaia.  

Trotskij distingue queste rivendicazioni “transitorie” dal vecchio “programma minimo” dei partiti socialdemocratici, che si limita a un elenco di riforme parziali raggiungibili all’interno del capitalismo, mentre il socialismo viene rimandato come una prospettiva distante e astratta. Le rivendicazioni transitorie, invece, hanno come obiettivo di porre dei compiti concreti, necessari ai lavoratori, che non possono essere ottenuti senza la presa del potere da parte dei lavoratori stessi, al fine di dimostrare nella pratica la necessità di risposte rivoluzionarie ai problemi della classe. In breve, il fine del programma di transizione è di concretizzare i compiti della rivoluzione socialista in modo che si colleghino all’esperienza concreta dei lavoratori in lotta.

Gli esempi delle rivendicazioni transitorie elencate nel documento erano intese certamente come una guida per i marxisti che in quel periodo agivano in un ampio ventaglio di paesi, ma offrono ancora molte indicazioni rilevanti per la lotta dei lavoratori oggi. Per esempio, la rivendicazione di Trotskij della scala mobile dei salari, cioè la garanzia di salari adeguati alle condizioni di vita per tutti, è tanto urgente nell’attuale periodo di bassi salari, lavori precari e aumento dell’inflazione, come lo era negli anni della Depressione degli anni ‘30. Legando questa rivendicazione a quella di un programma di lavori pubblici (di nuovo, un’altra rivendicazione che mantiene la sua piena forza oggi), all’espropriazione delle banche e a una lotta unificata e sistematica per tali rivendicazioni da parte del movimento operaio, Trotskij spiegava che le dichiarazioni dei capitalisti, per cui tali politiche avrebbero rovinato i loro affari, non avrebbero fatto altro che dimostrare nella pratica che la scelta di fronte ai lavoratori era tra prendere il controllo dell’economia o subire la rovina sotto il capitalismo.

Trotskij parla anche della necessità che i lavoratori combattano utilizzando i propri metodi di lotta. Fa appello a una lotta per aumentare la combattività dei sindacati e per rimpiazzare le loro direzioni corrotte. Allo stesso tempo, tuttavia, ispirandosi all’esperienza di importanti lotte di fabbrica, in particolare in Francia, spiegava che i sindacati potevano spingersi solo fino a un certo punto, che non potevano in alcun modo sostituire un partito rivoluzionario e che sarebbero stati probabilmente superati da altri organi di lotta più ampi (ad esempio i consigli di fabbrica). Metteva così in guardia contro il rischio di fare un feticcio del sindacalismo, presentando i sindacati come un fine in sé, invece che come “uno degli strumenti da utilizzare nella marcia verso la rivoluzione proletaria”.

Le rivendicazioni transitorie di Trotskij non si limitavano solo al campo economico. La rivendicazione di diritti elettorali per tutti gli uomini e le donne a partire dai diciotto anni (che a quel tempo non esistevano in molti paesi, incluse le cosiddette “democrazie” come gli USA), l’abolizione della diplomazia segreta e la “denuncia spietata di tutti i pregiudizi razziali e di tutte le forme e le variazioni di arroganza nazionale e di sciovinismo” costituiscono anch’esse una parte importante del programma di transizione. Tutte le lotte delle masse, economiche o politiche, dovevano essere unificate come parte di un programma socialista.

Traendo ispirazione dalla sua esperienza personale nelle rivoluzioni del 1905 e del 1917 in Russia, così come dall’esperienza delle rivoluzioni fallite in Cina nel 1925-27 e Spagna nel 1936-37, Trotskij riafferma nel Programma di transizione la sua teoria della “rivoluzione permanente” come guida per i rivoluzionari in tutti i paesi arretrati e sottoposti all’oppressione coloniale.

Trotskij spiegava che nei paesi in cui non sono ancora stati assolti i compiti della rivoluzione democratico-borghese (l’abolizione della proprietà feudale, l’indipendenza nazionale dall’imperialismo, l’acquisizione di diritti formalmente democratici…), la borghesia era così strettamente legata all’imperialismo e ai latifondisti che era del tutto incapace di condurre una lotta per ottenere anche uno solo di tali obiettivi, persino su base capitalista. Al contrario, le masse sfruttate, guidate dalla classe operaia, dovevano condurre questa lotta in prima persona e, nel farlo, inevitabilmente avrebbero avanzato anche le loro rivendicazioni, che andavano ben al di là dei limiti della rivoluzione democratica e si spingevano in direzione della lotta per il socialismo.

Pertanto per Trotskij, nei paesi che avevano ancora un’economia largamente rurale e contadina, bisognava portare avanti un’alleanza tra operai e contadini, senza la quale la rivoluzione era destinata al fallimento. In quest’alleanza il proletariato, per quanto numericamente inferiore, in virtù della sua omogeneità, del suo ruolo nella produzione e della sua concentrazione nelle grandi città, avrebbe svolto il ruolo dirigente, facendosi carico delle istanze delle masse contadine, estremamente numerose, ma disperse nelle campagne e differenziate al loro interno, esattamente come era avvenuto in Russia nel 1917.   

Trotskij specifica che l’alleanza tra operai e contadini poveri doveva essere in opposizione alla borghesia nazionale, per l’instaurazione della dittatura del proletariato e non per la costituzione di una democrazia liberale, impossibile nel contesto di arretratezza e di oppressione imperialista esistente nei paesi coloniali. Questa linea era in aperta contrapposizione all’infame politica dei “Fronti popolari” voluta da Stalin, che prevedeva l’alleanza della classe lavoratrice con la borghesia “progressista” o “antifascista” e aveva avuto come effetto il tradimento delle rivoluzioni in Cina e in Spagna.

Tuttavia, non è sufficiente armarsi di un programma e fare appello ai lavoratori perché si radunino dietro la nostra bandiera. Trovandosi in un’esigua minoranza nel movimento, soverchiata dal peso dell’influenza persistente e nefasta delle burocrazie riformista e stalinista, la Quarta Internazionale doveva affrontare il compito immediato di contrastare la supremazia dei riformisti e conquistare i settori più avanzati della classe lavoratrice (e in seguito le masse).

A questo scopo, Trotskij esortava i suoi seguaci a rigettare il settarismo e a orientarsi al movimento operaio per quello che era nella realtà, ripetendo in questo modo il consiglio che Lenin aveva dato negli anni ’20 alla giovane Internazionale comunista. Sulla questione dei sindacati, Trotskij sosteneva che rifiutarsi di partecipare e lottare dentro i sindacati con una direzione reazionaria (a volte iper-reazionaria), era nei fatti come rinunciare a qualsiasi lotta significativa, poiché l’influenza dei dirigenti riformisti di destra, in assenza di un’alternativa rivoluzionaria, si sarebbe rafforzata, mentre i marxisti si rinchiudevano in un isolamento dorato.

“Guardare in faccia la realtà, non cercare la linea di minore resistenza, chiamare le cose con il loro nome, dire la verità alle masse per quanto amara sia, non avere paura degli ostacoli, essere fedeli nelle piccole cose come nelle grandi, osare quando giunge l’ora dell’azione…”. È con queste parole che Trotskij stabilisce le “regole” della Quarta Internazionale. La Quarta Internazionale è oramai morta da tanto tempo, ma una nuova generazione di marxisti deve incidere queste regole sulle proprie bandiere per prepararsi alle lotte colossali che verranno!

GUIDA ALLA LETTURA DE L’IMPERIALISMO, FASE SUPREMA DEL CAPITALISMO

Proponiamo di seguito una guida alla lettura de L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, uno dei testi più importanti scritti da Lenin, ricco di analisi ancora estremamente utili a comprendere la realtà odierna. Se Marx nel Capitale aveva analizzato il capitalismo ai suoi esordi e nella sua fase storica ascendente, Lenin nel suo testo si concentra sulle caratteristiche del capitalismo maturo, pienamente sviluppato, in cui una serie di contraddizioni si accumulano in maniera sempre più marcata. Il testo originale è reperibile qui.

                                                                                                                                  La redazione

  Lenin scrisse L’imperialismo nella prima metà del 1916, durante il suo esilio in Svizzera. Il contesto storico e politico è importante per comprendere appieno la rilevanza di questo testo. La Prima Guerra mondiale fu un evento sconvolgente, che trascinò il movimento operaio in una crisi senza precedenti. I dirigenti della Seconda Internazionale si mostrarono del tutto incapaci di fornire un’analisi corretta del conflitto, lasciando la classe lavoratrice disarmata di fronte alla brutalità della guerra imperialista.

Molti di loro, avendo capitolato al “socialsciovinismo” (vale a dire l’appoggio del partiti socialisti alle politiche nazionaliste dei rispettivi governi borghesi), vedevano nell’imperialismo solo una politica “sbagliata” delle potenze capitaliste o semplicemente il frutto del nazionalismo. Nel suo testo Lenin fa piazza pulita di queste idee confuse, riarmando politicamente i lavoratori più avanzati con un’analisi materialista. Per il rivoluzionario russo le guerre predatorie e l’annessionismo non erano il frutto di scelte politiche soggettive, ma la diretta conseguenza dello sviluppo del capitalismo, entrato nella sua fase monopolistica.

Con L’imperialismo Lenin delineò i processi attraverso cui il “vecchio” capitalismo, caratterizzato dalla concorrenza e dal libero mercato, era stato sostituito dall’imperialismo, la fase suprema del capitalismo, caratterizzata dal dominio su scala internazionale dei monopoli e del capitale finanziario e in cui l’esportazione di capitali determinava la spartizione del mondo da parte delle grandi potenze imperialiste. Marx ed Engels avevano già prospettato che la concorrenza avrebbe ceduto il posto ai monopoli. Che le loro previsioni siano state poi confermate va a testimonianza della forza del metodo materialista dialettico e della continuità teorica tra l’opera dei fondatori del socialismo scientifico e il bolscevismo.

Nel suo libro Lenin, oltre a tracciare un’analisi dell’imperialismo, polemizza con i riformisti piccolo borghesi e i socialsciovinisti come Karl Kautsky, colpevoli di non aver saputo fornire un’analisi marxista dell’imperialismo e di non aver sostenuto una posizione di classe indipendente di fronte alla guerra, portando, con il loro tradimento, alla rovina della Seconda Internazionale. L’Imperialismo rimane uno strumento fondamentale per i marxisti nella battaglia teorica all’interno del movimento operaio. La correttezza delle tesi di Lenin è dimostrata anche oggi: il declino dell’imperialismo americano e l’ascesa di quello cinese stanno provocando nuove lotte per la spartizione dei mercati e delle sfere d’influenza, che si riflettono in tensioni crescenti, offensive protezionistiche e guerre per procura.

Capitolo 1. La concentrazione della produzione e i monopoli

Nel primo capitolo Lenin illustra con alcuni esempi l’impressionante fenomeno della concentrazione della produzione nei paesi a capitalismo avanzato. Proprio dal libero mercato deriva il predominio delle imprese più potenti e produttive, che fa sì che un pugno di monopoli arrivi a dominare l’intera economia. Questa per Lenin è la caratteristica decisiva della moderna economia capitalistica, nonché una conferma delle tendenze descritte da Marx e rifiutate dagli apologeti del sistema.

I monopoli erano a malapena visibili prima degli anni Settanta del XIX secolo, ma da allora, e soprattutto dopo la crisi del 1900-03, si erano sviluppati fino a diventare un elemento strutturale in tutte le nazioni a capitalismo avanzato. Essi prosperavano implementando lo sviluppo tecnologico, ma anche imponendo prezzi di monopolio.

Questi colossi non si limitano a produrre per un mercato indefinito: sanno valutare le risorse di intere nazioni, le potenzialità del mercato del lavoro nella sua totalità e la capacità di assorbire la produzione dei diversi mercati nazionali – quegli stessi mercati che poi procedono a spartirsi.

Questo significa che la produzione è sempre più socializzata. Lenin spiega che i capitalisti, pur cantando le lodi del “libero mercato”, stavano sostituendo (contro la loro volontà) la pianificazione economica alla concorrenza! E ogni tentativo di invertire il processo non può che caratterizzarsi come un’utopia reazionaria.

Capitolo 2. Le banche e la loro nuova funzione

La concentrazione in monopoli si verifica anche nel settore bancario. Il meccanismo è lo stesso dell’industria, ma giocano un ruolo fondamentali le gigantesche “società a partecipazione finanziaria” che permettono alle banche più grandi di dominare quelle più piccole. Le banche non fanno più solo da intermediarie per i pagamenti. Avendo formato monopoli, concentrano nelle loro mani quasi tutta la ricchezza monetaria della società, così come la conoscenza dell’andamento degli affari di tutti i loro clienti. Diventano così entità pervasive, con un potere di vita e di morte sulle operazioni commerciali e industriali.

Già alla fine del XIX secolo le banche tendevano ad impiegare direttori sempre più specializzati, coinvolti direttamente in specifici settori produttivi, e a rafforzare la simbiosi con l’industria (attraverso, per esempio, la nomina di loro rappresentanti nei consigli d’amministrazione delle fabbriche). Vediamo così la genesi dei giganteschi monopoli finanziari nel momento in cui le stesse banche intervengono e arrivano a dominare il capitale industriale.

Lenin spiega che nel moderno monopolio bancario vediamo dispiegarsi una sorta di “contabilità generale” di tutta l’economia. Tuttavia c’è una contraddizione. La produzione diventa sempre più socializzata, ma i mezzi di produzione rimangono in mano privata. Questo porta a squilibri di ogni tipo. Anche se le banche “pianificano” la produzione, non arrivano mai a superare completamente i meccanismi della concorrenza. Dal libero mercato si è passati a un sistema misto di concorrenza e monopolio. Lenin osserva acutamente che questa nuova fase del capitalismo mostra una società in transizione, ma pone la domanda: in transizione “verso cosa”?

Capitolo 3. Capitale finanziario e oligarchia finanziaria

Con l’emergere di questi giganteschi monopoli, il capitale industriale e quello bancario tendono a confluire nei colossi del capitale finanziario. In questo capitolo Lenin descrive il “sistema della partecipazione finanziaria” come la pietra angolare di tutto il sistema.

Citando una serie di dati dell’epoca, si spiega come fosse sufficiente “disporre del 40% delle azioni per dirigere gli affari di una società, poiché un certo numero di piccoli azionisti non hanno praticamente la possibilità di partecipare alle assemblee generali”. A dimostrazione della correttezza della tesi di Lenin su questo punto, oggi la percentuale di azioni necessaria a controllare una società è enormemente inferiore al 40%. Un dato di fatto che rappresenta la miglior risposta contro quei riformisti che vorrebbero “democratizzare” l’economia facendo di ogni operaio un azionista. Lenin mostra che in questo modo non si farebbe che rafforzare il dominio del capitale finanziario.

L’oligarchia finanziaria trae immensi profitti da prestiti, truffe e speculazioni. Per usare le parole di Lenin, “il capitalismo, che prese le mosse dal capitale usurario minuto, termina la sua evoluzione mettendo capo a un capitale usurario gigantesco”. A dimostrazione di questa affermazione porta l’esempio della Francia, che nel 1916 viveva un periodo di stagnazione dal punto di vista industriale e demografico, ma dove un pugno di milionari si stava arricchendo, precisamente tramite l’usura. Lenin descrive anche gli altri modi in cui questa oligarchia finanziaria estende il suo dominio in ogni sfera della vita pubblica. Le imprese in rovina vengono rilevate dopo ogni recessione, solo per essere riorganizzate o spogliate del loro patrimonio. Controllando le infrastrutture e i trasporti, il capitale finanziario trova nuove strade per la speculazione fondiaria su vasta scala. Anche lo Stato non è immune dato che, direttamente o indirettamente, anche i funzionari pubblici possono essere comprati. Al termine del capitolo viene illustrato come diverse economie avanzate siano cadute sotto il controllo del capitale monopolistico per stabilire a loro volta una stretta monopolistica sul mondo intero. Al tempo di Lenin quattro nazioni (la Gran Bretagna, la Francia, la Germania e gli Stati Uniti) possedevano circa l’80% del capitale finanziario internazionale.

Capitolo 4: L’esportazione del capitale

Se l’era del libero mercato si caratterizza per l’esportazione di merci, quella dell’imperialismo vi aggiunge anche l’esportazione intensiva di capitale. Quei paesi in cui la forma monopolistica si è sviluppata pienamente, si ritrovano con una grande eccedenza di capitali, che per fruttare devono necessariamente essere esportati in altri paesi.

Questo non impedisce che nei paesi avanzati esistano ancora aree sottosviluppate, in cui le masse vivono in povertà e l’agricoltura è profondamente arretrata. Ma lo sviluppo nel capitalismo ha sempre un carattere “diseguale e combinato” e il capitale non è mai usato allo scopo di liberare le masse dalla povertà.

Il punto è che in quei paesi più avanzati il capitalismo non è in grado di trovare settori profittevoli per gli investimenti. In altre parole, è maturato al punto da rischiare di marcire. Il capitale viene quindi esportato in paesi “arretrati”, dove i profitti sono alti grazie al basso prezzo delle terre, delle risorse e del lavoro. Le nazioni a capitalismo avanzato cominciano quindi a vivere come parassiti dei paesi più poveri, che vengono sfruttati intensivamente.

L’esportazione di capitale può rallentare lo sviluppo delle nazioni avanzate, ma effettivamente rafforza lo sviluppo del capitalismo nei paesi nei quali viene esportato. Ovviamente lo fa in modo diseguale e combinato: enormi fabbriche moderne sorgono al fianco di fattorie di sussistenza, proprietà feudali e altri residui di modi di produzione pre-capitalistici.

Così il capitale finanziario tesse la sua rete intorno al mondo intero. Le grandi compagnie finanziare stabiliscono le loro succursali, di nome o di fatto, in tutti i paesi poveri, fino a dominare l’intero mercato. Questa divisione del mondo tra i capitalisti finanziari arriva poi a coincidere con la divisione del mondo tra le diverse potenze, ognuna delle quali sostiene i propri gruppi finanziari.

Capitolo 5. La divisione del mondo tra raggruppamenti capitalistici

In questo capitolo Lenin inizia ponendo in evidenza come alcuni monopoli dominanti in nazioni differenti possano unirsi formando dei trust mondiali, o “super-monopoli”. Nel capitalismo i mercati interni sono inestricabilmente legati al mercato internazionale. Per questo i monopoli che in primo luogo dominano il proprio mercato interno, procedono a formare cartelli internazionali con le loro controparti straniere. Si accordano su come spartirsi il mercato mondiale, evitano di competere tra di loro all’interno dei singoli paesi e condividono avanzamenti nella ricerca e nella tecnologia.

Lenin procede poi a smascherare l’idea, propagandata dagli autori borghesi e fatta propria da Kautsky, secondo cui l’esistenza di questi trust internazionali potrebbe portare ad unità e pace. Viene spiegato come gli equilibri di potere espressi da un cartello possono mutare in qualunque momento, a partire da cambiamenti nei rapporti di forza e, più in generale, dallo sviluppo diseguale e combinato del capitalismo. Cioè è tanto più vero in corrispondenza di crisi e/o guerre.

I riformisti e i socialsciovinisti si concentrano sulle modalità in cui si svolge la lotta dei monopoli per il possesso del pianeta, che possono essere pacifiche oppure prevedere il ricorso alle armi a seconda delle circostanze. Questa questione è sempre secondaria rispetto alla natura di questo scontro e al suo contenuto di classe. È nell’interesse della borghesia nascondere questa natura, ma se è un dirigente operaio a nasconderla, allora si tratta di un tradimento bello e buono. 

A questo punto è ormai chiaro che l’imperialismo non rappresenta una caratteristica o una tendenza del capitalismo: è la fase suprema del capitalismo stesso, lo sbocco inevitabile del libero mercato. La struttura economica fortemente concentrata del sistema imperialista globale è ciò che permette alla classe capitalista di spartirsi il mondo. Questa spartizione si basa sui rapporti di forza tra le potenze, che possono mutare per motivi economici o “extra-economici” (una guerra, ad esempio). Cambia la forma, ma non il contenuto di classe di questo scontro.

Alla fine del capitolo si osserva come le relazioni tra cartelli internazionali si sviluppino sulla base della suddivisione economica del pianeta, così come, parallelamente, le alleanze politiche tra Stati si giocano sulla spartizione territoriale del mondo.

Capitolo 6. La divisione del mondo tra le grandi potenze

In questo capitolo Lenin innanzitutto illustra come il periodo 1876-1900 sia stato caratterizzato dalla spartizione definitiva del pianeta. La politica coloniale delle potenze imperialiste ha completato la conquista di tutti i territori non ancora occupati. Questa spartizione è “definitiva” nel senso che non ci sono nuovi territori per cui le potenze imperialiste possano competere. Questo non significa che si tratti di una divisione statica o permanente, ma che nuovi territori possono essere acquisiti solo tramite une nuova suddivisione.

Il colonialismo nell’età dell’imperialismo è qualitativamente diverso dal colonialismo nell’epoca del libero mercato, perché è legato in modo indissolubile ai monopoli finanziari. La politica coloniale nell’era dell’imperialismo ha lo scopo di fornire ai monopoli una garanzia contro la concorrenza, centralizzando il controllo di tutte le materie prime e di tutta la forza lavoro in un territorio specifico.

Tuttavia nel tardo XIX secolo vi erano evidenti squilibri nella divisione del mondo. All’epoca paesi come la Gran Bretagna e la Francia facevano la parte del leone nella divisione dei possedimenti coloniali. La Germania, al contrario, scontava un ritardo nella creazione del suo impero coloniale. Allo stesso tempo le vecchie potenze capitaliste, come la Gran Bretagna e la Francia, si trovavano in una situazione di stagnazione, mentre nuove potenze come la Germania, gli Stati Uniti e il Giappone crescevano molto rapidamente. E poi c’era la Russia, dove l’imperialismo conviveva nello stesso sistema assieme a rapporti di proprietà precapitalistici, in un esempio eccellente di sviluppo diseguale e combinato.

C’era una contraddizione: i paesi con il più impetuoso sviluppo economico e tecnologico non erano necessariamente quelli con più colonie. Questa contraddizione non poteva che essere risolta tramite una guerra per una nuova spartizione del mondo tra le potenze imperialiste.

Capitolo 7. L’imperialismo, fase particolare del capitalismo

In questo capitolo Lenin polemizza di nuovo con Kautsky e la sua concezione dell’imperialismo. Tirando le fila del discorso, riassume le caratteristiche principali dell’imperialismo: la concentrazione della produzione e del capitale, che porta alla formazione di monopoli; la fusione di capitale bancario e industriale; l’esportazione di capitali, che acquisisce un carattere distinto rispetto all’esportazione di merci; e la formazione di monopoli internazionali.

Ribadendo che le caratteristiche dell’imperialismo non sono che il prodotto dello sviluppo del capitalismo stesso, Lenin contrappone la sua analisi a quella di Kautsky, per cui l’imperialismo non è una fase dello sviluppo capitalistico, ma piuttosto una specifica politica portata avanti dalla borghesia.

Kautsky prova cioè a separare la dimensione politica dell’imperialismo (guerre, occupazioni, annessioni…) dalle sue basi economiche. La conclusione di un ragionamento di questo tipo è che, dal momento che l’imperialismo è solo un tipo di politica nel capitalismo, altre politiche più pacifiche sono possibili. Una concezione che in ultima istanza apre la strada al riformismo: non si esclude che una politica borghese differente sia possibile senza che ci sia bisogno di rovesciare le basi materiali del sistema.

Infine, Lenin attacca il concetto kautskyano di “ultra-imperialismo”, l’idea secondo cui il dominio dei trust internazionali potrebbe mitigare le diseguaglianze e le contraddizioni proprie del capitalismo. Avendo già esposto come le apparenti tregue tra cartelli possano essere interrotte da cambiamenti nei rapporti di forza e da nuove spartizioni, in questo capitolo Lenin va oltre, dimostrando come il capitale finanziario e i trust in effetti aumentino la diseguaglianza tra i livelli di crescita delle differenti aree dell’economia mondiale. Per esempio, nel periodo immediatamente precedente alla Prima Guerra Mondiale, la Germania era cresciuta più velocemente della Gran Bretagna, ma quest’ultima aveva comunque più colonie. Contraddizioni di questo tipo conducevano a guerre tra le potenze imperialiste.

Capitolo 8. Parassitismo e putrefazione del capitalismo

Lenin spiega che un aspetto importante dell’imperialismo è la crescita di uno strato “parassitario” nella popolazione dei paesi a capitalismo avanzato. L’esportazione di capitali, un aspetto chiave dell’imperialismo, ha luogo in parte perché il capitale finanziario non può trovare campi di investimento profittevoli all’interno della propria nazione imperialista. L’esportazione di capitali permette così ad un intero settore della popolazione di vivere sfruttando i dividendi derivanti dai massicci investimenti all’estero.

Lenin fa l’esempio della Gran Bretagna. Nonostante all’epoca la Gran Bretagna fosse la maggiore potenza esportatrice al mondo, il reddito derivante dai dividendi e dagli interessi dei capitali investiti all’estero era di cinque volte superiore al reddito derivante da tutto il suo commercio estero.

L’imperialismo è inoltre caratterizzato da una tendenza alla stagnazione e alla decadenza, a causa della stretta dei monopoli sull’economia. Questa tendenza può avere il sopravvento in determinati periodi, eliminando l’incentivo a investire nello sviluppo tecnologico. In secondo luogo, la conversione della borghesia in una classe di rentier (cioè coloro che vivono di rendita) accresce il suo allontanamento dai processi di produzione.

Questi aspetti hanno conseguenze importanti per il movimento socialista. I grossi profitti monopolistici di pochi paesi ricchissimi vengono infatti impiegati per corrompere lo strato più elevato della classe lavoratrice (quella che Lenin definiva “aristocrazia operaia”), rafforzando così le correnti opportuniste nel movimento operaio, dal momento che questo settore si distacca sempre più dalle masse e dai loro bisogni.

In questo capitolo Lenin riassume l’atteggiamento delle diverse classi rispetto all’imperialismo. Le classi proprietarie sono totalmente dalla parte dell’imperialismo e i commentatori borghesi al massimo possono occultare la loro difesa dell’imperialismo dietro meschini appelli volti a riformarne ad attutirne gli aspetti più violenti.

A causa delle pressioni sulla piccola impresa creati dal domino dell’oligarchia finanziaria e dalla conseguente eliminazione della concorrenza, all’inizio del XX secolo si era sviluppata in molti paesi avanzati un’opposizione democratica piccolo-borghese all’imperialismo. Questa posizione contrapponeva la “libertà”, la “democrazia” e la “concorrenza” alle caratteristiche esistenti dell’epoca imperialista: ancora una volta questo pensiero idealista concepiva l’imperialismo come un insieme di scelte politiche e non come una fase oggettiva nello sviluppo del capitalismo.

Lenin spiega che non è compito del movimento operaio contrapporsi all’imperialismo difendendo un ipotetico ritorno a un’era passata di competizione e libero mercato. In ogni caso uno sviluppo del genere sarebbe impossibile, dal momento che gli stessi monopoli sono sorti dalla crescita e dalla concentrazione della produzione e del capitale proprio nell’epoca del libero mercato. I marxisti dovrebbero avere chiaro che l’unica alternativa all’imperialismo è il socialismo. Non vogliamo il ritorno al libero mercato, vogliamo porvi fine ponendo fine al capitalismo.

Capitolo 10. Il posto che occupa l’imperialismo nella storia

Lenin in definitiva caratterizza l’imperialismo come capitalismo monopolistico, una fase di transizione caratterizzata da monopoli e trust, dal nuovo ruolo delle banche come monopoli del capitale finanziario, da una nuova politica coloniale incentrata sulla battaglia per le materie prime e l’esportazione di capitali.

L’imperialismo, a causa del dominio dei cartelli, innalza il costo della vita per la classe operaia. È questa una delle maggiori caratteristiche dell’imperialismo in quanto fase di transizione, che comincia con il consolidamento del capitale finanziario. Le caratteristiche principali di questa epoca di transizione sono la concentrazione e la socializzazione della produzione in misura sempre maggiore.

Su scala internazionale, l’imperialismo ha accresciuto la diseguaglianza nello sviluppo economico degli Stati perché ha generato un sistema dove poche potenze imperialiste e parassitarie dominano e sfruttano una maggioranza di nazioni più deboli. Secondo Lenin proprio la forma oligarchica dei monopoli, in obiettiva contraddizione con la socializzazione della produzione, non è che un sintomo del carattere moribondo del capitalismo.

GUIDA ALLA LETTURA DI SALARIO, PREZZO E PROFITTO PRIMA PARTE

Presentiamo di seguito la prima parte di una guida alla lettura di Salario, prezzo e profitto, un breve testo in cui Karl Marx sintetizza i punti essenziali della sua teoria economica. Questo scritto rappresenta un’ottima introduzione al Capitale, dove gli stessi concetti vengono notevolmente sviluppati e approfonditi. Il testo originale è reperibile qui.

                                                                                                                                  La redazione  

Salario, prezzo e profitto raccoglie una conferenza tenuta da Marx per conto dell’Associazione internazionale degli operai (la Prima Internazionale) il 20 giugno 1865, mentre stava scrivendo il primo volume del Capitale.

All’incontro del Consiglio generale dell’Internazionale del 4 aprile 1865, John Weston, rappresentante dei lavoratori inglesi e seguace di Robert Owen, pose in discussione due argomenti: primo, la questione se un aumento dei salari avrebbe migliorato in generale le condizioni materiali della classe lavoratrice o meno; e secondo, se un aumento dei salari in un settore dell’industria avrebbe avuto effetti negativi su altri settori.

Il 2 e 20 maggio 1865, Weston fece una relazione su queste questioni al Consiglio generale, sostenendo che un aumento dei salari non avrebbe migliorato le condizioni materiali della classe lavoratrice e che l’organizzazione sindacale, a causa del suo impatto negativo sull’industria, era dannosa per gli interessi materiali degli operai.

In una riunione del 20 maggio, Marx argomentò contro le conclusioni di Weston e si stabilì che il 20 giugno Marx avrebbe tenuto una relazione completa contro le tesi di Weston, e che entrambe le relazioni sarebbero state pubblicate.

Secondo Weston, i tentativi da parte dei lavoratori di aumentare i salari sono inefficaci perché i capitalisti possono rispondere o alzando i prezzi dei beni di prima necessità (riportando quindi i salari reali al livello precedente) o riducendo il numero di lavoratori impiegati. Di conseguenza, questa teoria era un’arma nelle mani della borghesia nei suoi sforzi per opporsi alla lotta economica del proletariato; e, naturalmente, senza prendere parte alla lotta economica, i lavoratori non avrebbero compreso la necessità di una lotta politica per rovesciare il capitalismo.

In breve, la conseguenza di questa teoria, che Marx comprendeva bene, era che la classe dei salariati sarebbe rimasta subordinata a quella dei capitalisti. È per questo che Marx si sentì in obbligo di confutare le affermazioni di Weston e argomentare in favore della lotta economica dei lavoratori, spiegando allo stesso tempo che questo tipo di lotta non è che un mezzo, un passaggio inevitabile, verso una lotta politica più generale per l’abolizione del capitalismo e il dominio della classe lavoratrice.

La relazione di Marx al Consiglio generale non venne mai pubblicata nel corso della sua vita: il manoscritto fu trovato tra le sue carte dopo la morte di Engels e preparato per la pubblicazione nel 1898 da sua figlia Eleanor e suo marito, Edward Aveling, che aggiunse una prefazione e inserì dei titoli per l’introduzione e i primi sei capitoli (che ne erano originariamente privi).

Nella prima parte del testo, Marx identifica i presupposti errati nel ragionamento di Weston, mentre nella seconda parte, nello sviluppare la sua critica, Marx fornisce un’esposizione chiara e concisa della teoria del valore-lavoro, del rapporto tra salari e profitti e della natura della lotta tra capitalisti e salariati. È questo il motivo per cui questo libricino è spesso suggerito come un’introduzione al primo volume del Capitale, in cui la teoria del valore-lavoro viene trattata più diffusamente. Tuttavia, il fatto che Marx abbia presentato questa teoria in modo così chiaro e conciso in Salario prezzo e profitto è un risultato notevole, considerando la sua opinione, espressa in una lettera ad Engels del 20 maggio 1865, per cui un “corso di economia politica” non potesse essere trattato “in un’ora”.

Marx parte affrontando le due premesse su cui poggia il ragionamento del “cittadino” Weston [all’epoca della Prima Internazionale, la parola “cittadino” veniva utilizzata al posto di “compagno”] e cioè che l’ammontare della produzione nazionale e la somma dei salari reali sono quantità fisse, costanti.

L’ammontare della produzione nazionale non può essere fisso, ci spiega Marx, perché le statistiche sulla produzione dimostrano che il “valore e la massa della produzione” cambiano di anno in anno. Ciò nonostante, anche se le quantità della produzione nazionale fosse costante, secondo Marx non ne deriverebbe affatto che anche i salari reali sono costanti, perché il salario, che è una percentuale del valore che il lavoratore crea, è inversamente proporzionale ad un’altra percentuale del valore da lui creato, cioè il profitto. In altre parole, affinché la produzione sia profittevole, i capitalisti devono assicurarsi una continua riduzione del valore del salario reale (cioè del valore delle merci e dei servizi che si possono acquistare con il salario nominale).

Il significato di tutto questo è che la produzione capitalista è una questione non solo di economia, di produrre nel modo più efficiente possibile, ma anche di politica, del potere che una classe sociale, la classe capitalista, esercita sopra un’altra classe, la classe lavoratrice.

All’inizio di questo capitolo, Marx tratta in modo conciso una delle conseguenze economiche dell’asserzione del cittadino Weston per cui l’ammontare della produzione nazionale è fisso, e cioè che, se la classe lavoratrice ottiene un aumento dei salari in denaro, la classe dominante risponderà aumentando i prezzi delle merci, con il risultato che il valore reale dei salari (il valore delle merci e dei servizi che i lavoratori possono ottenere con il loro salario) resterà costante.

Marx spiega che i capitalisti non possono semplicemente alzare i prezzi come vogliono, perché sono soggetti alla pressione della domanda e dell’offerta. Viene considerata innanzitutto la produzione di beni di prima necessità. Con un aumento dei salari, il prezzo di mercato di questi beni aumenta perché, dato che i lavoratori spendono i propri salari in beni di prima necessità, la domanda aumenta; e i capitalisti che producono oggetti di prima necessità sarebbero in grado di mantenere il proprio saggio di profitto, perché l’aumento del prezzo di mercato sarebbe una compensazione per i salari più alti che devono pagare. Al contrario, siccome la domanda di articoli di lusso (che i lavoratori non sono comunque in grado di comprare) non aumenterebbe, non aumenterebbe nemmeno il loro prezzo di mercato, con il risultato che il saggio di profitto per i capitalisti che producono beni di lusso comincerebbe a diminuire.

La conseguenza dell’incremento dei salari, quindi, è una differenza nel saggio medio di profitto tra questi due settori della produzione. Il capitale si sposterà dal settore in cui si producono i beni di lusso (il settore meno profittevole) a quello in cui si producono i beni di prima necessità (quello più profittevole), finché l’aumento di offerta di beni di prima necessità non soddisfa la domanda accresciuta di tali beni e il calo nella produzione di beni di lusso non elimina l’eccesso di offerta di questi beni; e così via finché il prezzo di mercato dei beni di prima necessità crolla e cresce il prezzo di mercato di quelli di lusso. Il risultato finale è un saggio medio di profitto ora uguale tra i due settori produttivi, che però è inferiore rispetto a prima dell’aumento dei salari.

A sostegno della sua tesi, Marx cita l’aumento dei salari in Gran Bretagna tra il 1849 e il 1859 che, contrariamente a quanto previsto dagli economisti borghesi, non aveva portato alla rovina economica. In realtà in quel periodo, nonostante l’aumento dei salari e l’introduzione di una giornata lavorativa più breve, i prezzi delle merci erano scesi grazie all’aumento della produttività del lavoro.

In questo capitolo, Marx si dedica all’affermazione di Weston per cui la la massa del denaro circolante è fissa. “Egli ha detto: come conseguenza di un aumento generale dei salari in denaro è necessario più denaro in contanti per pagarli. E poiché la massa del denaro circolante è fissa, come potete con questa quantità fissa di denaro che è in circolazione pagare una maggior quantità di salari in denaro?”

Marx confuta questa tesi ricorrendo ad una serie di esempi concreti della sua epoca. Cita il fatto che in Inghilterra i salari erano più alti rispetto al resto dell’Europa, ma richiedevano la circolazione di una massa di denaro inferiore rispetto a quella necessaria in Germania, Italia, Svizzera ecc. Questo era dovuto ad un maggior perfezionamento del sistema bancario e del sistema dei pagamenti in Inghilterra, che niente aveva a che fare con la questione dei salari.

Viene fatto l’esempio dei primi anni ’60 dell’Ottocento, durante i quali gli operai dell’industria del cotone videro diminuire i loro salari approssimativamente del 75%; ciò nonostante, nello stesso periodo, la massa del denaro circolante in Inghilterra era notevolmente aumentata.

E ancora, nonostante l’incremento nelle transazioni monetarie verificatosi nell’industria ferroviaria in Inghilterra tra il 1842 e il 1862, l’ammontare totale di denaro in circolazione era rimasto grossomodo lo stesso. Marx spiega: “…in generale noterete, di fronte ad un enorme aumento di valore non solo delle merci, ma di tutte le transizioni in denaro in generale, una tendenza alla contrazione progressiva del circolante. Secondo il punto di vista del nostro amico Weston, questo è un enigma insolubile.”

Possiamo spiegare tutti questi fatti, sostiene Marx, quando comprendiamo che c’è una variazione, ogni giorno, nell’ “importo delle transazioni monetarie da concludersi”; nell’ “importo dei pagamenti effettuati senza alcun ricorso al denaro, cioè per mezzo di cambiali, di assegni, di conti correnti”; nel “rapporto fra le monete che sono in circolazione e le monete e l’oro che sono in riserva o giacciono nei sotterranei delle banche”…

Se questo era già vero ai tempi di Marx, lo è tanto più oggi, con la quasi totalità delle tranaizioni finanziarie che avvengono senza far ricorso a denaro contante o a corrispondenti riserve bancarie.

In questo breve capitolo, Marx affronta il problema che il cittadino Weston - e chiunque altro – si  trova di fronte quando sostiene che i salari sono “troppo alti” o “troppo bassi”. Come è possibile stabilire il punto di riferimento rispetto al quale possiamo dire che i salari sono alti o bassi, senza prima stabilire “una misura sulla base della quale viene calcolata la loro grandezza”?

Bisogna quindi chiedersi da cosa sono determinati i salari. La risposta degli economisti borghesi è semplice: i salari sono determinati dalle leggi del mercato del lavoro, attraverso la domanda e l’offerta. Marx contesta questa affermazione, spiegando che le leggi del mercato del lavoro non determinano “altro che le oscillazioni temporanee dei prezzi di mercato.”

Se l’offerta di lavoro supera la domanda, i salari calano. Se la domanda supera l’offerta, i salari crescono. Ma le leggi della domanda e dell’offerta possono spiegare solo “perché il prezzo di mercato di una merce sale al di sopra o cade al di sotto del suo valore, ma non vi possono mai spiegare questo valore.”

Da cosa è determinato allora questo valore? È proprio a questa domanda che Marx risponderà nei capitoli successivi. 

In questo capitolo, Marx sfata definitivamente la “vecchia dottrina popolare falsa e fallita, secondo la quale i salari determinano i prezzi.”

Se ciò fosse vero, spiega Marx, i prezzi bassi delle merci sarebbero associati ad un basso livello dei salari e viceversa. Le cose non stanno così. Spesso accade il contrario: “il lavoro pagato bene produce le merci a buon mercato e il lavoro pagato male produce le merci care.”

Dato che con il termine “salario” non si intende altro che il prezzo del lavoro e con il termine “prezzo” non si intende altro che il valore di una determinata merce espresso in denaro, sostenere che i salari determinano i prezzi, equivale a dire che “il valore del lavoro determina il valore delle merci”. Ma questo non fa altro che porre la domanda: come viene determinato il valore del lavoro? Non si può infatti determinare un valore per mezzo di un altro valore, che a sua volta ha bisogno di essere determinato.

“Espresso nella sua forma più astratta, il dogma ‘che i salari determinano i prezzi delle merci’ si riduce a dire che ‘il valore è determinato dal valore’, e questa tautologia significa, in realtà, che del valore non sappiamo niente.”

Dopo aver affrontato gli errori nelle argomentazioni del cittadino Weston, Marx introduce la questione della natura del valore, chiedendoci di riflettere su quale sia il valore di una merce e come venga determinato questo valore.

Quando consideriamo il valore di scambio di qualsiasi merce, ci dice Marx, dobbiamo comprendere il fatto che una certa quantità di una singola merce può essere scambiata con diverse quantità di tutte le altre merci. Ma questo pone una domanda: come sono regolati i rapporti in base ai quali le merci vengono scambiate tra loro? Qual è l’elemento comune, la “sostanza sociale” che le merci più diverse hanno in comune e che rende possibile scambiarle tra loro in diverse quantità? 

La risposta questa domanda è: il lavoro. È la quantità di lavoro impiegata o incorporata in ciascuna merce – il “lavoro sociale realizzato, fissato, o… cristallizzato” – la cui misura è il tempo. Maggiore è la quantità di tempo necessaria per la produzione di una merce, maggiore è il suo valore. Inoltre, quando consideriamo che cosa determina il valore di scambio di qualsiasi merce, dobbiamo anche prendere in considerazione la quantità di lavoro che è incorporata nelle materie prime, negli strumenti di lavoro e negli altri mezzi di produzione – un valore che durante la produzione viene trasferito, gradualmente, alle merci finite. Il trasferimento graduale del valore – il “consumo o logorio medio in un tempo determinato” – viene definito tasso di deprezzamento.

La quantità di lavoro attraverso la quale è determinato il valore di scambio di qualsiasi merce è la quantità di “lavoro socialmente necessario” a produrla e cioè “la quantità di lavoro necessaria per la sua produzione in un determinato stato sociale, in determinate condizioni sociali medie di produzione, con una determinata intensità media sociale e una determinata abilità media del lavoro impiegato.”

In questo modo viene tenuto conto delle differenze non soltanto nelle condizioni naturali della produzione – “come la fertilità del suolo, la ricchezza del sottosuolo, e così via” – ma anche delle differenze nell’intensità del lavoro, nell’abilità di lavoratori, nelle tecnologie impiegate e via dicendo.

Nella parte finale di questo capitolo, Marx affronta l’ “espressione monetaria del valore”, ossa il prezzo, che non è altro che il valore di scambio di una merce (la quantità di lavoro sociale in essa incorporata) espresso in denaro, in modo da poter confrontare facilmente i valori di scambio di merci diverse.

In questo modo si può stabilire quello che può essere definito il prezzo naturale di una merce. Siccome però le merci vengono vendute sul mercato, bisogna distinguere tra il prezzo naturale di una merce e il suo prezzo di mercato.

Nel lungo periodo, però, un aumento nel prezzo di mercato è compensato da un calo e viceversa, in modo tale che in media una merce è sempre venduta al proprio prezzo naturale (e cioè in base al proprio valore di scambio). Questo significa che l’esistenza del profitto non può essere spiegata con la vendita di una merce ad un prezzo superiore al suo valore di scambio.

In questo capitolo Marx passa ad affrontare il concetto di lavoro e invita a riflettere sul significato dell’espressione “valore del lavoro”. Fa parte del senso comune, ci dice Marx, considerare il lavoro esattamente come una qualsiasi altra merce che viene comprata o venduta. Ma il senso comune è errato: “non esiste una cosa come il valore del lavoro, nel senso comune della parola.”

Come abbiamo visto, il valore di una merce è determinato dalla quantità di lavoro socialmente necessario a produrla. “Applicando questo concetto del valore come potremmo, ad esempio, determinare il valore di una giornata di lavoro di dieci ore? Quanto lavoro è contenuto in questa giornata? Dieci ore di lavoro. Dire che il valore di una giornata di lavoro di dieci ore è uguale a dieci ore di lavoro, o alla quantità di lavoro in essa contenuta, è un’affermazione tautologica e, inoltre, un’affermazione assurda.”

L’errore consiste nel presupporre che il valore sia un concetto indipendente dal concetto di valore. Proprio perché è la quantità di lavoro sociale incorporato in una merce a determinarne il valore, l’espressione valore del lavoro è “tautologica”, come a dire “valore del valore”.

Questo errore viene corretto da Marx, che specifica: quel che si vende e si compra non è il lavoro, ma la forza-lavoro, vale a dire la capacità di lavorare, le capacità fisiche e intellettuali del lavoratore. “Quello che l’operaio vende non è direttamente il suo lavoro, ma la sua forza-lavoro, che egli mette temporaneamente a disposizione del capitalista.”

Nella seconda metà del capitolo, Marx analizza che cosa determina il valore della forza-lavoro. La sua risposta, naturalmente, è conseguente con la legge del valore precedentemente esposta. Come per ogni altra merce, il valore della forza-lavoro è determinato dalla quantità di lavoro necessaria per la sua produzione. Ma come viene prodotta la forza lavoro? Quali sono i costi della sua produzione?

Una persona, per mantenere intatta la sua  capacità di lavorare, deve consumare una serie di beni di prima necessità. Ma c’è anche il costo per istruire e formare i lavoratori, per sviluppare le loro conoscenze e le loro capacità. Gli operai inoltre si logorano e devono essere sostituiti da altri operai: vanno quindi aggiunti i costi per quei beni di uso corrente che consentono al lavoratore di “allevare un certo numero di figli, che debbono rimpiazzarlo sul mercato del lavoro e perpetuare la razza degli operai”.  In breve, “il valore della forza lavoro è determinato dal valore degli oggetti d'uso corrente che sono necessari per produrla, svilupparla, conservarla e perpetuarla.”

Bisogna notare, inoltre, che alcuni tipi di forza-lavoro sono più costosi da produrre di altri. Un tecnico specializzato è più “costoso” di un operaio generico. In questo modo, in diversi settori, vediamo variazioni nel valore della forza-lavoro e nel suo prezzo, il salario. Su queste  basi, Marx sostiene che rivendicare  “una paga uguale o anche soltanto equa” è illusorio e irrealizzabile sotto il modo di produzione capitalista: “poiché diverse specie di forza-lavoro hanno un diverso valore… esse debbono avere un prezzo diverso sul mercato del lavoro.” Per de-mercificare la forza-lavoro, è quindi necessario abolire il capitalismo e “il sistema del salario” dal quale dipende; questo è l’unico modo di emancipare la classe lavoratrice.

GUIDA ALLA LETTURA DI SALARIO, PREZZO E PROFITTO SECONDA PARTE

Presentiamo di seguito la seconda parte di una guida alla lettura di Salario, prezzo e profitto, un breve testo in cui Karl Marx sintetizza i punti essenziali della sua teoria economica. Questo scritto rappresenta un’ottima introduzione al Capitale, dove gli stessi concetti vengono notevolmente sviluppati e approfonditi. Il testo originale è reperibile qui.

                                                                                                                                  La redazione  

Capitolo 8: La produzione del plusvalore

In questo breve capitolo, Marx analizza l’origine dei profitti del capitalista. Inizia ricordandoci che il capitalista, quando acquista la forza-lavoro, acquisisce “il diritto di consumare o di usare la merce che ha comperato.”

Il valore di scambio della forza-lavoro, che “è determinato dalla quantità di lavoro necessaria per il suo mantenimento e riproduzione”, è però distinto dal valore d’uso della  forza-lavoro, che è limitato soltanto dalle capacità fisiche e intellettuali del lavoratore. Questo significa che un operaio, nelle sue ore di lavoro, è in grado di produrre merci al cui interno è incorporato un valore superiore a quello degli “oggetti di utilizzo comune” necessari al suo mantenimento.

Marx suddivide la giornata lavorativa tra le ore in cui un lavoratore produce merci per un valore equivalente a quello del suo salario e le ore in più, che Marx definisce di “pluslavoro”, in cui produce merci per le quali il capitalista non paga alcun equivalente e il cui valore va interamente a costituire il suo profitto, il cosiddetto “plusvalore”.

L’origine del plusvalore, quindi, si trova nello scambio diseguale tra il capitalista e il lavoratore: il capitalista riceve, attraverso l’uso della forza-lavoro, un prodotto il cui valore è maggiore del valore della forza-lavoro che il capitalista ha acquistato, mentre il lavoratore riceve, attraverso il salario, un valore inferiore al valore totale di ciò che è stato prodotto. “È su questa forma di scambio tra capitale e lavoro, che la  produzione capitalistica o il sistema del lavoro salariato è fondato, e che deve condurre a riprodurre continuamente l'operaio come operaio e il capitalista come capitalista.”

Capitolo 9: Il valore del lavoro

A questo punto Marx riprende l’espressione che ha trattato in un capitolo precedente, il “valore o prezzo del lavoro”, e analizza il modo in cui è diventata parte del senso comune dei lavoratori.

Poiché i lavoratori ricevono il loro salario solo dopo aver finito il loro lavoro, ritengono che il capitalista paghi loro il lavoro effettivamente svolto e non la possibilità di disporre della loro forza-lavoro. In questo modo anche il pluslavoro,  il “lavoro non pagato” che forniscono e attraverso il quale viene generato il plusvalore, appare loro come “lavoro pagato”.

Questa caratteristica distingue il capitalismo dai precedenti sistemi economici, come la schiavitù o la servitù della gleba, in quanto “la parte pagata e la parte non pagata del lavoro sono confuse in modo inscindibile, e la natura di tutto questo procedimento è completamente mascherata dall’intervento di un contratto e della paga che ha luogo alla fine della settimana”.   

Capitolo 10: Come si crea il profitto quando una merce è venduta al suo valore

In questo breve capitolo, Marx indaga quali sono le modalità con cui il capitalista trae profitto dalla produzione. La sua risposta è piuttosto semplice: il capitalista trae profitto quando vende la merce non ad un prezzo superiore al suo valore di scambio, ma ad un prezzo uguale al suo valore.

Come è possibile? È possibile perché il valore di una merce è uguale alla “quantità totale di lavoro” in essa incorporata, ma solo una parte di questa quantità di lavoro rappresenta un valore per il quale il capitalista ha pagato un equivalente in forma di salari; mentre un’altra parte è materializzata in un valore per cui non è stato pagato alcun equivalente e che va a costituire il profitto del capitalista.

Come scrive Marx, il capitalista “… non vende soltanto ciò che gli è costato un equivalente, ma vende anche ciò che non gli è costato niente, quantunque sia costato il lavoro del suo operaio.”

Capitolo 11: Le diverse parti in cui si scompone il plusvalore

In questo capitolo Marx spiega che il plusvalore non viene interamente intascato dal capitalista, che deve corrisponderne una parte al proprietario terriero che gli ha affittato i terreni sui quali costruire la fabbrica o alla banca che gli ha prestato il denaro per acquistare i macchinari. In questo modo il plusvalore può essere suddiviso in più parti: la rendita fondiaria, che finisce nelle tasche del proprietario del terreno; l’interesse finanziario, di cui si appropria la banca, il fondo d’investimento o “il capitalista che presta denaro”; infine il profitto industriale o commerciale, che è quanto viene conservato dall’imprenditore capitalista, dall’industriale.

Ciò detto, Marx sottolinea che rendita fondiaria, interesse finanziario e profitto industriale non sono tre forme diverse di plusvalore, la cui “addizione” è uguale al plusvalore totale di una merce. Sono piuttosto tre diverse fette che possono essere prese dalla torta del plusvalore totale, che però è unicamente il frutto del lavoro non pagato degli operai. Non sono né la terra né il capitale finanziario a produrre ricchezza, “ma suolo e capitale danno la possibilità ai loro proprietari di ricevere la loro parte rispettiva del plusvalore che l’imprenditore capitalista spreme dall’operaio”. Se l’industriale è anche proprietario del terreno sul quale sorge la fabbrica e impiega nella sua impresa solo capitali propri, potrà tenere per sé tutto il plusvalore, tutti i profitti.

Per i lavoratori è irrilevante in che proporzione il plusvalore viene suddiviso, quel che conta è che ad essere spartito è il plusvalore creato dal suo lavoro non pagato. “Per l’operaio è d’importanza secondaria il fatto che questo plusvalore, risultato del suo pluslavoro o di lavoro non pagato, venga esclusivamente intascato dall’imprenditore capitalista, oppure che quest’ultimo sia costretto a cederne delle parti a terze persone, sotto il nome di rendita fondiaria e di interesse.”  

Nella parte finale del capitolo, Marx distingue tra l’ammontare del profitto, che è una grandezza assoluta, e il saggio di profitto, che è una grandezza relativa. Il saggio di profitto è infatti il rapporto tra il plusvalore totale e il capitale anticipato sotto forma di salari. Proprio perché indica il vero rapporto tra lavoro pagato e non pagato, il saggio di profitto rivela il vero grado dello sfruttamento del lavoro. 

Capitolo 12: Il rapporto generale tra profitti, salari e prezzi

In questo capitolo, Marx analizza come sono collegati tra loro profitti e salari, valore e prezzi. Marx ci dice che salari e profitti sono inversamente proporzionali. Per esprimere questo rapporto in modo più preciso, potremmo dire che, se i salari salgono, il saggio di profitto deve scendere; mentre, se i salari scendono, il saggio di profitto deve salire.

È attraverso questa chiave di lettura che si può spiegare la lotta di classe tra borghesi e proletari, che è in primo luogo una lotta per la divisione del prodotto del lavoro, una sorta di tiro alla fune. Questa lotta può essere risolta soltanto con una rivoluzione, con i lavoratori che si appropriano dei mezzi di produzione e decidono democraticamente come distribuire il prodotto del lavoro.

Nella seconda metà del capitolo, Marx considera la natura del rapporto tra valore di scambio e prezzo. Sostiene che, nonostante il valore di scambio di una merce sia determinato dal tempo di lavoro in esso cristallizzato, questo valore non è fisso: cambierà, al cambiare della “forza produttiva del lavoro impiegato”, ossia della produttività del lavoro. Ad esempio, con lo sviluppo di nuove tecnologie e l’introduzione di macchinari più avanzati, un lavoratore è in grado di produrre molto di più nello stesso lasso di tempo. Questo ha un effetto sul valore delle merci e, di conseguenza, sul loro prezzo naturale.  

Capitolo 13: I casi principali in cui vengono richiesti aumenti o combattute diminuzioni di salario

In uno dei capitoli più lunghi, Marx esamina, attraverso quattro diversi scenari, i diversi fattori che spingono i lavoratori a rivendicare un aumento, o ad opporsi ad una diminuzione, dei salari. Nel primo scenario, Marx considera l’impatto di un cambiamento nel valore dei beni di prima necessità sul tenore di vita dei lavoratori.

Nel secondo scenario, Marx prende in considerazione l’ipotesi in cui il valore dei beni di prima necessità, e di conseguenza il valore della forza-lavoro, rimangono uguali, ma i prezzi dei beni di prima necessità aumentano in seguito ad una diminuzione nel valore del denaro. In questa situazione, il tenore di vita del lavoratore peggiorerebbe e di conseguenza i lavoratori dovrebbero difenderlo rivendicando un salario nominale più alto, per compensare gli effetti del deprezzamento della moneta. È quello che accade, ad esempio, quanto i lavoratori lottano per adeguare i loro salari all’inflazione.

Nel terzo scenario, Marx analizza l’impatto di un cambiamento nella lunghezza della giornata di lavoro, spiegando che i capitalisti hanno tutto l’interesse ad estendere la durata della giornata di lavoro in modo da estrarre una maggior quantità di plusvalore dalla produzione e superare la concorrenza. Di contro i lavoratori devono cercare di limitare il più possibile la  durata della giornata di lavoro.

Ma anche laddove questo limite orario viene imposto per legge, i capitalisti potrebbero comunque tentare di ottenere un aumento della “intensità del lavoro”. “Se si aumenta l’intensità del lavoro un uomo può essere costretto a consumare in un’ora tanta forza vitale quanta ne consumava prima in due ore. […] Opponendosi a queste tendenza del capitale con la lotta per degli aumenti di salario corrispondenti alla maggiore intensità del lavoro, l’operaio non fa nient’altro che opporsi alla svalutazione del suo lavoro e alla degenerazione della sua razza.”

Nel quarto e ultimo scenario, Marx parla dell’impatto del ciclo economico sui salari. Se i prezzi di mercato di tutte le merci fluttuano intorno ai loro prezzi naturali, i lavoratori devono cercare di opporsi all’abbassamento dei salari, risultato di una fase di recessione, e cercare di ottenere, durante un boom economico, il maggior aumento salariale possibile in modo che, in media, il prezzo della loro forza-lavoro corrisponda al suo valore.

Capitolo 14: La lotta tra capitale e lavoro e i suoi risultati

L’ultimo capitolo comincia ponendo la questione di “fino a qual punto, in questa lotta incessante tra capitale e lavoro, quest’ultimo ha delle prospettive di successo.”

Marx ci ricorda innanzitutto che il prezzo di mercato medio della forza lavoro sarà uguale al suo prezzo naturale – il suo valore di scambio – perché le fluttuazioni nel prezzo di mercato si bilanciano, come per tutte le altre merci.

Tuttavia, Marx ci chiede di pensare ad “alcune circostanze particolari, che differenziano il valore della forza-lavoro … dai valori di tutte le altre merci”. Il valore della forza-lavoro è infatti costituito da due elementi, uno fisico e uno storico-sociale.

Tuttavia, l’esperienza storica ci mostra che in alcuni casi è possibile per i capitalisti ridurre i salari al di sotto non solo del limite sociale, ma anche del limite fisico del valore della forza-lavoro; in altre parole, è possibile pagare salari così bassi che chi li riceve ha bisogno di qualche forma di sussidio statale o di beneficienza per tirare avanti.

Avendo analizzato i limiti al valore della forza-lavoro, o il livello “minimo” del salario, Marx discute i limiti alla profittabilità della produzione, dato il rapporto di proporzionalità che intercorre tra salari e profitti:

L’effettivo saggio di profitto, l’effettivo livello del salario e l’effettiva durata della giornata di lavoro, saranno quindi determinati dal risultato della lotta tra capitale e lavoro.

Marx aggiunge che, con l’aumento della produttività, aumenta la quota di capitale fisso (quella destinata all’acquisto di macchinari, materie prime, mezzi di produzione, ecc.) in rapporto alla quota di capitale variabile (quella investita in salari, per acquistare forza-lavoro). Questo determina quella che Marx chiama “modificazione crescente nella composizione del capitale”, che ha delle conseguenze ben precise: “Con lo sviluppo dell’industria la domanda di lavoro non procede dunque di pari passo con l’accumulazione del capitale. Essa aumenta indubbiamente, ma in proporzione continuamente decrescente rispetto all’aumento del capitale.”

Da tutto questo emerge che “lo sviluppo dell’industria moderna deve far pendere la bilancia sempre più a favore del capitalista” e che la tendenza generale della produzione capitalista non è all’aumento del livello medio dei salari, ma alla loro riduzione, a spingere il valore della forza-lavoro “su per giù al suo limite più basso.”

Dunque come dovrebbero rispondere i lavoratori? La classe lavoratrice innanzitutto non deve cedere alla pressione dei capitalisti; se i lavoratori abbandonassero la lotta, “sarebbero ridotti al livello di una massa amorfa di affamati e disperati a cui non si potrebbe più dare nessun aiuto”. Dato il contesto sociale in cui sono gettati, i lavoratori sono costretti a vendere la propria forza-lavoro per sopravvivere e non possono evitare di entrare in conflitto con i capitalisti.

Nel breve periodo, quindi, i lavoratori dovrebbero sicuramente organizzarsi nei sindacati per sviluppare la propria forza, come classe, nella lotta contro i capitalisti; ma nel lungo periodo, devono andare oltre questa forma di resistenza e usare la propria forza collettiva “come una leva per la liberazione definitiva della classe operaia.”

GUIDA ALLA LETTURA DI RIFORMA SOCIALE O RIVOLUZIONE? DI ROSA LUXEMBURG

Proponiamo di seguito una guida alla lettura di Riforma sociale o rivoluzione?, uno degli scritti più significativi della grande rivoluzionaria Rosa Luxemburg. Scritto nel 1899 in polemica contro il revisionismo di Bernstein, che voleva “revisionare” la teoria marxista, rimane a tutt’oggi una pietra miliare nella polemica dei rivoluzionari contro le concezioni riformiste. Il testo integrale è reperibile qui. 

                                                                                                                                  La redazione 

Rosa Luxemburg comincia inquadrando la contrapposizione tra rivoluzione e riforme come una questione che non era stata affrontata in passato, perché la lotta per le riforme (intese come miglioramenti nelle condizioni di vita dei lavoratori sotto il capitalismo) è sempre stata una rivendicazione fondamentale del movimento marxista. Tuttavia, i rivoluzionari vedono questa lotta come il percorso attraverso il quale la classe operaia si organizza e prende coscienza del suo potere, non come il vero obiettivo finale, che resta la rivoluzione socialista. Al contrario, una tendenza revisionista all’interno del Partito socialdemocratico tedesco, che faceva particolare riferimento alla figura di Eduard Bernstein, aveva iniziato a suggerire che la socialdemocrazia dovesse limitarsi alla lotta per le riforme, lasciando perdere quella per la rivoluzione. Bernstein sosteneva che in questo modo i socialisti potevano trasformare gradualmente la società.

Il libro di Rosa Luxemburg è scritto in polemica con questa tendenza. Spiega che, se il riformismo all’interno del partito deve essere sconfitto, ciò deve avvenire attraverso una lotta politica per educare i lavoratori alla teoria marxista. Le idee del riformismo riflettevano la natura piccolo-borghese degli accademici e dei “teorici” nell’apparato del partito. Questi volevano fare concessioni ai padroni e, alla fine, mettere da parte la lotta di classe a favore della collaborazione di classe. Formare politicamente gli operai del movimento era un’esigenza imprescindibile, per renderli capaci di comprendere e rifiutare queste teorie. Citando la rivoluzionaria polacca: “Solo quando la grande massa dei lavoratori prenderà nelle proprie mani le armi ideologiche del socialismo scientifico, tutte le inclinazioni piccolo-borghesi, tutte le correnti opportunistiche, verranno meno.”

In questo capitolo, la Luxemburg approfondisce le teorie di Bernstein. Inizialmente questi sosteneva, come tutti i revisionisti, che le sue proposte politiche non fossero altro che un'elaborazione delle teorie di Marx ed Engels, quando in realtà erano in totale contraddizione con queste ultime. Una delle idee chiave del marxismo è che il capitalismo attraversa periodicamente delle crisi economiche. Queste sono talvolta profonde e generalizzate, tanto da mettere a rischio l'intero sistema. Tuttavia Bernstein rifiuta tutto questo, sostenendo che il sistema capitalista può adattarsi e liberarsi dall’insorgere delle crisi. Tutto questo rompe con una parte importante della base scientifica del socialismo, cioè con il fatto che queste contraddizioni sono inerenti al sistema capitalista. Tolto questo, il socialismo è solo una “bella idea”, piuttosto che una necessità storica.

I lettori dovrebbero notare che in questo capitolo, come nel resto del libro, la Luxemburg usa il termine “crollo” del capitalismo. Questo suo uso del termine rischia di prestare il fianco ad interpretazioni errate.

“Egli [Bernstein] afferma cioè che lo sviluppo capitalistico non andrebbe incontro a un crollo economico generale. Ma con ciò non nega semplicemente quella certa forma di rovina del capitalismo, ma il fatto stesso della rovina.”

Più avanti in questo capitolo la Luxemburg scrive:

“O la trasformazione socialista continua ad essere la conseguenza delle contraddizioni interne dell'ordinamento capitalistico e allora insieme con quest'ordinamento si sviluppano anche le sue contraddizioni, e un crollo, in questa o in quella forma, ne consegue a un certo momento inevitabilmente […]  Oppure i ‘mezzi di adattamento’ sono realmente in grado di impedire un crollo del sistema capitalistico, e quindi di rendere vitale il capitalismo e di eliminare le sue contraddizioni, ma in questo caso il socialismo cessa di essere una necessità storica, e può essere tutto ciò che si vuole, ma non un risultato dello sviluppo materiale della società.”

Da questi passaggi si potrebbe interpretare il testo della Luxemburg nel senso che il capitalismo crollerà semplicemente da solo, portando all’instaurazione del socialismo. Questa non è la posizione del marxismo. Il capitalismo attraversa periodicamente momenti di crisi acuta e organica, ma non crollerà mai da solo fino a distruggere se stesso, con il socialismo che lo sostituirà automaticamente. L’istaurazione del socialismo è frutto di una battaglia consapevole, anche se naturalmente le crisi del capitalismo pongono le basi per la vittoria del socialismo. La Luxemburg certamente non pensava che il socialismo avrebbe “automaticamente” sostituito un capitalismo “crollato”, dato che era una dirigente rivoluzionaria in prima linea nella lotta consapevole per rovesciare attivamente e politicamente il capitalismo.

Questo capitolo tratta dei diversi modi in cui Bernstein sostiene che il capitalismo può adattarsi ed evitare di entrare in crisi. La Luxemburg spiega che questi metodi di fatto spingono il capitalismo in una crisi più profonda, o nel migliore dei casi, non riescono ad evitare che la crisi economica si verifichi.

La questione del credito è discussa in profondità. Il credito permette temporaneamente al sistema di superare i suoi limiti, poiché nel breve termine può espandere i mercati disponibili per il capitalismo. Tuttavia, come spiega la Luxemburg, il credito esaspera anche tutte le contraddizioni già presenti nel capitalismo. Il ruolo effettivo del credito non è quello di prestare denaro ai lavoratori per dare loro potere d'acquisto, ma di dare ai capitalisti più velocemente l'accesso a nuovo capitale da investire nelle loro imprese. Inoltre, la sua enorme flessibilità rende il capitalismo ancora più anarchico, incoraggiando la speculazione che non è legata a nessun elemento nell'economia reale. Tutto questo aumenta l'intensità delle crisi di sovrapproduzione.

Inoltre, il credito non è legato ad alcun valore nell'economia, è semplicemente una promessa di pagamento in un momento successivo. Pertanto, “al primo segno di un ristagno, il credito si contrae, pianta in asso lo scambio là dove sarebbe necessario, si dimostra inefficace e senza scopo là dove si offre ancora e riduce così al minimo durante la crisi la capacità di consumo.”

Bernstein sostiene che le industrie e i cartelli possono combinarsi e organizzarsi tra loro per minimizzare parte dell'anarchia del mercato. Ma mentre i cartelli nazionali possono diminuire la concorrenza in casa, acuiscono la concorrenza sul mercato globale, portando a guerre commerciali e crisi economiche internazionali. E questi cartelli capitalisti non fanno altro che aumentare la contraddizione tra padroni organizzati e lavoratori.

Lungi dal prevenire le crisi, questi metodi non fanno che peggiorarle.

Capitolo 3: Instaurazione del socialismo per mezzo di riforme sociali

Questo capitolo affronta il ruolo che la lotta per le riforme sociali può giocare sotto il capitalismo. Bernstein sostiene che questa lotta per le riforme economiche e il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori può alla fine sfociare nella trasformazione socialista della società. Tuttavia, sotto il capitalismo, le riforme hanno un carattere molto limitato.

Anche se il movimento sindacale organizzato può cercare di difendere i diritti dei lavoratori, questo è in definitiva limitato alla lotta per l'aumento dei salari, alla riduzione della giornata lavorativa, ad evitare dei licenziamenti dove possibile, ecc. Questo non pone in alcun modo in discussione lo sfruttamento che è intrinseco al sistema capitalista. Può regolare questo sfruttamento, ma non trasforma il processo di produzione stesso.

Inoltre, quando lo Stato implementa una legislazione sul lavoro, difficilmente agisce in difesa dei lavoratori. Le riforme sociali promulgate dallo Stato sono nell'interesse di preservare il capitalismo, anche se a breve termine danno piccoli problemi ai capitalisti. “E quando Bernstein pone il problema se in una legge sulle fabbriche c'è più o meno socialismo, possiamo assicurargli che nella migliore di tutte le leggi sulle fabbriche c'è altrettanto ‘socialismo’ quanto nelle ordinanze municipali sulla pulizia delle strade e l'accensione dei fanali a gas, che sono anch'esse manifestazioni di un ‘controllo sociale’.”

Quando il capitalismo attraversa una crisi, il movimento sindacale si trova spesso in svantaggio. Invece di essere in grado di cogliere il momento per trasformare la società, il settore del movimento sindacale che si limita alle riforme deve combattere una lotta difensiva, cercando di impedire che le conquiste del passato siano sottratte ai lavoratori. Per compensare le perdite sul mercato, i capitalisti cercano ancora di più di attaccare i salari e le condizioni di vita dei lavoratori. Anche lo Stato abroga le riforme sociali per dare ai capitalisti più capacità di fare profitti.

La soluzione è di non limitarsi alla lotta per le riforme, ma di lottare politicamente per il rovesciamento del capitalismo. Questo non significa che non valga la pena lottare per le riforme, ma che queste non porteranno automaticamente al socialismo.

Capitolo 4: Politica doganale e militarismo

Questo capitolo discute il ruolo che lo Stato, e in particolare il parlamento, può giocare nella società. Nella società di classe, lo Stato è organizzato per rappresentare gli interessi della classe dominante. Lo Stato attuerà le riforme sociali solo se sono anche nell'interesse dei capitalisti.

Ci può essere un conflitto tra gli interessi funzionali allo sviluppo del capitalismo nel suo complesso, e gli interessi dei singoli capitalisti o dei capitalisti di un particolare paese. In questi casi, lo Stato prende le parti di questi ultimi – per esempio, mantenendo politiche protezionistiche per proteggere i mercati interni, o iniziando guerre non per espandere il capitalismo, ma per difendere un gruppo di capitalisti contro un altro. Così possiamo vedere che lo Stato non rappresenta gli interessi della società nel suo complesso, ma semplicemente gli interessi ristretti dei capitalisti.

Dunque perché mai lo Stato borghese dovrebbe implementare il socialismo? Bernstein sostiene che, poiché la democrazia è ora estesa alle masse, esse inevitabilmente voteranno nel loro interesse e questa può essere una modalità graduale per raggiungere il socialismo. Tuttavia, questo contraddice il carattere di classe dello Stato, e contraddice ciò che sappiamo dalla storia. Infatti, anche se “democratico nella forma”, il parlamento è lo strumento della classe dominante. Più i lavoratori si avvicinano all'elezione di un parlamento socialista, più l'illusione della democrazia sarà sacrificata per mantenere la funzione reale dello Stato a difesa degli interessi dei capitalisti.

Capitolo 5: Conseguenze pratiche e carattere generale del revisionismo

In questo capitolo, la Luxemburg spiega come l'adozione nel partito della teoria di Bernstein – la teoria del riformismo – influenzerebbe l’attività politica concreta. La Luxemburg spiega perché i marxisti partecipano alla lotta per le riforme sociali, come questo sia un modo per preparare il proletariato a prendere il potere. Al contrario, i riformisti non sono interessati a prendere il potere, ma solo a conquistare miglioramenti a breve termine delle condizioni di vita dei lavoratori, entro i limiti del capitalismo. In altre parole, i marxisti mirano ad usare questa lotta per creare un “fattore soggettivo”, un'organizzazione dei lavoratori disposti a rovesciare il capitalismo, mentre Bernstein sostiene che le riforme sociali porteranno oggettivamente alla fine del capitalismo.

Tuttavia, poiché abbiamo già dimostrato che le riforme sociali, da sole, non mettono fine al capitalismo, quali sono le implicazioni pratiche di questa teoria? Il socialismo non si realizzerà automaticamente. La condizione oggettiva per il rovesciamento del capitalismo è la crisi, l'intensificazione di tutte le profonde contraddizioni all'interno del capitalismo stesso. Ma è necessario anche un fattore soggettivo. La classe operaia deve rendersi conto che l'unico modo per uscire da queste contraddizioni è la trasformazione socialista della società.

Il riformismo di Bernstein è in definitiva costruito su un’analisi non dialettica e idealista del capitalismo. Non analizza l'economia capitalista nel suo insieme, ma piuttosto tratta ogni parte dell'economia capitalista come qualcosa di a sé stante. Questo emerge pienamente nella sua argomentazione per cui il sistema può semplicemente eliminare le crisi di sovrapproduzione. In realtà, il capitalismo è un sistema che funziona dialetticamente, come tutto il resto del mondo. Ogni parte influenza le altre. Le contraddizioni fluiscono l'una nell'altra e la risoluzione temporanea di una contraddizione porta solo all'intensificazione di un'altra. In questa sezione, la Luxemburg sottolinea che se ci si libera delle crisi di sovrapproduzione, si elimina la distruzione periodica delle forze produttive. Ma è proprio questa distruzione delle forze produttive che frena la tendenza del saggio di profitto a ridursi, il che rappresenta una minaccia molto più grande per il capitalismo che le crisi di sovrapproduzione stesse. 

Questo non è necessariamente vero: il capitalismo ha molti altri modi per contrastare il calo tendenziale del saggio di profitto, come l'apertura di nuovi mercati o la riduzione dei salari. Tuttavia, il suo punto principale è corretto, cioè che la risoluzione di una delle contraddizioni del capitalismo non fa che esacerbarne altre. Il modo di Bernstein di rappresentare il mondo non solo rifiuta l'economia marxista, ma abbandona anche il metodo del materialismo dialettico.

La convinzione che l'economia capitalista possa essere in qualche modo “aggiustata” e il rifiuto di preparare la classe operaia alla presa del potere significa che i cosiddetti socialdemocratici in realtà finiscono per muoversi nella direzione opposta, diventando uno strumento della democrazia borghese. Invece di aiutare a realizzare il socialismo, essi sostengono attivamente il capitalismo.

Capitolo 6: Lo sviluppo economico ed il socialismo

In questo capitolo la Luxemburg espone in maniera più dettagliata l'idealismo di Bernstein, sottolineando come Bernstein scelga appositamente i dati per cercare di confutare le analisi di Marx sul capitalismo – per esempio pretendendo di confutare la teoria della tendenza alla concentrazione del capitale con l'esistenza dei piccoli azionisti e delle imprese di medie dimensioni. In realtà il dirigente riformista ha una visione molto semplicistica del capitalismo, confondendo alcuni dati accidentali con il funzionamento reale del sistema. In realtà, ogni piccolo azionista non diventa individualmente un capitalista. Le società per azioni semplicemente mettono insieme le piccole quantità di risparmi degli individui e, una volta raccolti abbastanza contributi individuali, la quantità si trasforma in qualità e i risparmi diventano capitale. Il “capitalista” non è una persona singola, ma una categoria sociale ed economica. Questo spiega anche l'ossessione dei riformisti come Bernstein per la piccola borghesia. Non avendo alcun interesse, in realtà, a sbarazzarsi degli antagonismi di classe, vogliono semplicemente ridurre il loro impatto il più possibile. Invece di sbarazzarsi di capitalista e operaio, i riformisti vogliono semplicemente elevare il maggior numero possibile di lavoratori nella categoria della classe media (la piccola borghesia).

L'abbandono del socialismo scientifico risulta ancora più chiaro con l’analisi che Bernstein propone della teoria del valore-lavoro, sostenendo che è semplicemente un'astrazione delle merci reali. Egli ignora il fatto che la teoria del valore-lavoro è basata su un'analisi reale e scientifica dell'economia capitalista. Essa mostra come il valore di scambio di ogni merce è basato sul tempo di lavoro socialmente necessario contenuto in essa. Questo spiega anche perché esiste il denaro, che agisce come un equivalente universale per i valori di scambio delle diverse merci. In questo senso la natura del denaro rimane un mistero per gli economisti borghesi.

I marxisti sono capaci di analizzare l'economia perché non la consideriamo come un sistema eterno, ma come un fenomeno storico specifico.

Capitolo 7: Sindacati, cooperative e democrazia politica

Il capitolo tratta delle altre proposte di Bernstein per realizzare il socialismo attraverso le riforme. In particolare, si discute a proposito dei sindacati e delle cooperative (sul lato economico) e dell'uso della democrazia (sul lato politico).

Bernstein sostiene che i sindacati possono essere usati per eliminare i profitti dei padroni attraverso la lotta per aumentare i salari (e quindi trasformare qualsiasi profitto borghese in salari più alti). Tuttavia, come abbiamo già discusso, i sindacati all'interno di un sistema capitalista non possono sopprimere del tutto la legge dei salari: i lavoratori possono solo lottare per una fetta leggermente più grande della torta. Inoltre, come vediamo oggi, l'aumento della produttività e la maggiore concorrenza sul mercato del lavoro portano i sindacati a dover combattere una battaglia sempre più difensiva, poiché le riforme del passato sono costantemente sotto attacco. La Luxemburg paragona questa situazione a una “fatica di Sisifo”, un mito dell'antica Grecia in cui un re era condannato a spingere costantemente un masso su per una collina, solo per farlo rotolare di nuovo giù una volta raggiunta la cima.

E le cooperative? Nello stesso modo in cui i sindacati dovrebbero controllare i salari e quindi attaccare i profitti degli industriali, le cooperative dovrebbero controllare i profitti del commercio.

Il problema delle cooperative è che funzionano all'interno del sistema capitalista e quindi devono obbedire alle leggi del mercato. Alla fine, i lavoratori di queste imprese o devono sfruttare se stessi al punto che queste aziende alla fine diventano completamente capitaliste, o l'impresa stessa fallisce. Le cooperative di produttori possono continuare ad esistere solo quando sono sostenute da cooperative di consumatori, ma è ovvio che questo rappresenta solo una frazione dell'economia capitalista. Le cooperative non sono altro che la bella decorazione di un'economia capitalista.

In entrambi questi casi, possiamo vedere che Bernstein ha completamente rinunciato alla lotta contro il modo di produzione capitalista, cioè la lotta contro lo sfruttamento, e si limita invece a combattere i sintomi del capitalismo su base individuale, su piccola scala. La conclusione naturale di questo non è una società socialista, ma un ritorno alla comune contadina!

Poiché Bernstein ha rinunciato a qualsiasi idea di combattere la base materiale del capitalismo, sostenendo persino che la legge del plusvalore non è niente di più di un'astrazione, l'unica strada rimasta è quella idealista. Invece di lottare per trasformare la società, Bernstein suggerisce che è semplicemente possibile convincere educatamente i capitalisti ad essere più giusti ed equi nella distribuzione dei loro profitti.

Questo può avvenire attraverso la democrazia? Solo se si crede (come fanno i riformisti) che la democrazia sia un sistema che può trascendere gli antagonismi di classe e unire la nazione. Questo non potrebbe essere più lontano dalla verità. Più che esserci una democrazia in quanto tale che si eleva al di sopra delle classi, ci sono molti tipi diversi di democrazia che esprimono diverse forme di società di classe. La democrazia borghese, proprio come la democrazia delle antiche società schiaviste greche, rappresenta in definitiva gli interessi della classe dominante.

Il capitalismo e la democrazia non sono intrinsecamente legati. Nella storia il capitalismo ha fatto ricorso a monarchie assolute, dittature totalitarie e persino teocrazie. Per ora, in molti dei paesi capitalisti sviluppati, la democrazia è considerata il metodo ideale di governo della classe dominante, ma questo può cambiare. Infatti, la Luxemburg spiegava che il liberalismo e la democrazia stavano diventando sempre più inutili per la classe dominante tedesca, in gran parte a causa della paura verso il crescente movimento operaio.

La classe dominante non si farebbe problemi a spazzare via qualsiasi concessione democratica fatta in precedenza, se questo fosse necessario per impedire ai lavoratori di andare al potere. I riformisti spesso sostengono che i socialisti rivoluzionari vogliono “ignorare” la democrazia, come se la democrazia borghese fosse l'unico tipo di governo possibile. Sì, la democrazia borghese è una farsa. Ma alla fine la classe operaia organizzata è l'unica che può difendere la vera democrazia, la democrazia della grande maggioranza, la democrazia dei lavoratori.

Capitolo 8: La conquista del potere politico

In questo capitolo si parla della necessità di una rivoluzione proletaria. I riformisti sostengono che le riforme legislative e la rivoluzione raggiungono entrambi lo stesso fine (una società più equa) e quindi è possibile scegliere tra loro. Ma storicamente non è così.

Durante lo sviluppo del capitalismo dal feudalesimo, la borghesia poteva usare il processo legislativo per rafforzare gradualmente la propria posizione. Questo non ha sostituito la necessità di una rivoluzione borghese per prendere il potere, in realtà ne ha semplicemente preparato la strada. Piuttosto che essere uno scoppio spontaneo, violento e casuale, la rivoluzione è la forza motrice della storia.

La riforma legislativa e la rivoluzione non si escludono a vicenda: si completano a vicenda. Storicamente, le nuove costituzioni giuridiche sono spesso prodotte da una rivoluzione. “Mentre la rivoluzione è l'atto politico creativo della storia delle classi, la legislazione rappresenta la continuità della vegetazione politica della società.” Questo significa anche che le riforme sono limitate nella loro portata.

La riforma legislativa rimane all'interno del quadro messo in atto dall'ultima rivoluzione. I riformisti, quindi, non stanno in realtà perseguendo lo stesso obiettivo dei socialisti. Invece del socialismo, il loro obiettivo è il capitalismo riformato.

Sotto il capitalismo esistono tutti i semi per una società socialista, ma rivestono forme che sono ancora totalmente estranee al socialismo. La democrazia porta le masse alla partecipazione politica, ma la democrazia borghese rappresenta solo il dominio della classe capitalista. Allo stesso modo, la socializzazione del lavoro nei grandi luoghi di lavoro e la pianificazione delle enormi multinazionali pone le basi per una società socialista. Ma sotto il capitalismo, questa socializzazione e questa pianificazione del lavoro portano solo a enormi profitti per i padroni e alienazione per il singolo lavoratore. Queste forme non ci porteranno automaticamente al socialismo, senza una trasformazione rivoluzionaria. Sono importanti non perché rendono superflua l'idea della rivoluzione socialista, ma perché dimostrano che è necessaria e possibile.

In questo capitolo, la Luxemburg spiega come i riformisti abbiano abbandonato interamente l’idea di socialismo. Piuttosto che essere una sorta di innovazione, in realtà il riformismo finisce per essere un idealismo riscaldato. Se si butta via qualsiasi critica al capitalismo, si finisce per accettare lo status quo. Questo significa accettare lo sfruttamento dei lavoratori finché i borghesi possono affermare di essere in qualche modo “politicamente progressisti”. In definitiva, questo significa negare che lo sfruttamento, o anche la stessa classe operaia, esistano.

I primi riformisti sostenevano di essere teorici “neutrali”, abbandonando i cosiddetti “pregiudizi” dei marxisti. Invece di rappresentare una classe, sostenevano di rappresentare tutta l'umanità, proponendo argomenti astratti e morali. Ma siccome viviamo in una società di classe, le persone che affermano di non avere pregiudizi, hanno in realtà un pregiudizio a favore dello status quo, nascondendone la brutale realtà. Abbandonando il socialismo, il riformismo non ha altra scelta che difendere il capitalismo. Così vediamo che, pur fingendo di essere semplicemente un'innovazione del marxismo, il riformismo di Bernstein è in realtà un attacco totale al marxismo e, portato alla sua logica conclusione, finisce per andare contro a qualsiasi possibilità di socialismo.

a)         Perché le “cooperative” sono legate al sistema capitalista?

b)         In che modo la trasformazione della società attraverso i sindacati e le cooperative è incompatibile con le leggi del capitalismo?

c)         Perché la concezione di Bernstein dello sviluppo capitalistico è incompatibile con la teoria marxista del plusvalore?

d) Perché la lotta di classe deve avere una base reale nell’economia?

e)         Perché non si può trasformare il sistema senza la lotta di classe?

Capitolo 10: L’opportunismo in teoria e in pratica

Nel capitolo finale, la Luxemburg discute lo sviluppo del riformismo nel movimento marxista. Anche a quel tempo, questa non era certo una tendenza nuova. Tuttavia, fino al libro di Bernestein non c'era mai stato un tentativo di dargli un'espressione teorica compiuta.

I riformisti non erano capaci di mettere insieme una teoria compiuta che spiegasse la società nel suo insieme, come fa il marxismo. Il riformismo, invece, cerca di risolvere un pezzo del capitalismo alla volta e attacca un piccolo elemento del marxismo dopo l'altro.

Il metodo e i risultati del riformismo differiscono chiaramente da quelli del movimento socialista. Essi distolgono la classe operaia dalla lotta di classe e spingono il movimento operaio in direzione della borghesia.

Il socialismo utopistico, che ha preceduto il marxismo, basava la lotta per il socialismo su considerazioni di giustizia morale e pertanto presupponeva una filosofia idealista. Fu importante nello sviluppo del movimento socialista, poiché diede espressione teorica ai primi sintomi della lotta di classe sotto il capitalismo. Erano le idee grazie alle quali il proletariato imparò a camminare sulla scena della storia. Ma man mano che la lotta di classe si sviluppava e le contraddizioni all'interno del capitalismo diventavano più chiare, queste teorie non furono più sufficienti. Era necessario il socialismo scientifico. Contrariamente agli idealisti del XIX secolo, il riformismo del XX secolo rappresentò un chiaro passo indietro e un tentativo di contenere lo sviluppo del movimento operaio.

Tuttavia, solo perché il marxismo è corretto, non significa che il riformismo, l'anarchismo e l'idealismo si dimostrino automaticamente sbagliati agli occhi della maggioranza delle persone. Un partito rivoluzionario è ancora parte del resto della società e subisce la pressione delle idee borghesi dominanti.

Questa pressione non avviene perché le idee borghesi sono corrette, ma deriva dalle condizioni sociali reali. È necessario condurre una costante battaglia teorica contro le idee che sono estranee alla classe. L'unico modo per difendersi da tutto questo, come afferma Rosa Luxemburg all'inizio del libro, è educare tutto il partito alle idee e ai metodi del marxismo. 

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